Ben scavato vecchie talpe

ALTRONOVECENTO
Pubblicato da Jaca Book il secondo volume di un’opera coordinata dalla Fondazione Micheletti sulle esperienze e le culture politiche che aspiravano a una trasformazione radicale della società  senza seguire la strada maestra del movimento operaio ufficiale

ALTRONOVECENTO
Pubblicato da Jaca Book il secondo volume di un’opera coordinata dalla Fondazione Micheletti sulle esperienze e le culture politiche che aspiravano a una trasformazione radicale della società  senza seguire la strada maestra del movimento operaio ufficiale

 È stato da poco pubblicato Il sistema e i movimenti. Europa 1945-1989, il secondo volume di un’impresa culturale e politica di grandissimo respiro – sulla storia passata e il futuro possibile del «comunismo» – promossa dalla Fondazione Micheletti di Brescia e dall’Editoriale Jaca Book, sotto la guida di quello storico acuto e raffinato che è Pier Paolo Poggio. Il disinteresse e il silenzio, pressoché totale, riservato al primo volume (L’età del comunismo sovietico. Europa 1900-1945) da esperti e non esperti, istituzioni culturali e mass media, è, ovviamente un segno dei tempi che stiamo vivendo, ed è pari, in modo inverso, alla complessità e alla dignità dell’opera in questione. Giacchè di «opera» sul «comunismo eretico» bisogna parlare, data la quantità degli studiosi e delle competenze, di seminari e discussioni, messi in campo per la sua realizzazione, prevista in cinque volumi, dal titolo complessivo L’Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico (gli altri volumi seguiranno nell’ordine, rispettivamente: Capitalismo e rivoluzione nella Americhe. 1900-1989; Anticolonialismo e comunismo in Africa E Asia. 1900-1989; Comunismo e pensiero critico nel XXI secolo).

Lo scopo fondamentale di tale amplia mole di lavoro è di sottrarre le «dignità» civili e antropologiche, implicite nell’idea di comunismo, alla sepoltura definitiva cui nell’opinione dei più sono state consegnate con il crollo dell’Unione Sovietica nel 1989 e l’implosione del cosiddetto «comunismo realizzato». E lo vuole fare attraverso la presentazione – sintetica ma nello stesso tempo ricca di categorie, concetti, connessioni storiche – dei pensatori e dei movimenti che durante il Novecento hanno radicalmente criticato sia il capitalismo e la civiltà liberistica da un lato che, dall’altro, il comunismo sovietico e i partiti, anche e sopratutto occidentali, che se ne sono fatti testimoni partecipi e garanti.
Eretici e minoritari
Così se il Novecento oggi, nell’opinione più diffusa, alimentata e moltiplicata dai più diversi apparati (dis)informativi, è stato il secolo del comunismo e del suo conclusivo fallimento – e dunque di ogni sua impossibile riproposizione futura – l’opera guidata da Poggio vuole far emergere l’Altro Novecento, cioè quel complesso minoritario di teorici, studiosi, ma anche di movimenti e correnti dell’emancipazione, che, schiacciati tra l’egemonia dello stalinismo e del capitalismo, hanno provato comunque a concepire un’idea e una pratica del comunismo diverse da quelle del movimento operaio ufficiale. Che si sono cioè provati – con molte differenze tra di loro, spesso in modo assai parziale o contraddittorio, in periodi e contingenze storiche assai diverse – a pensare e ad agire un modello di comunismo che fuoriuscisse, in qualche modo, da quella logica di potenza e forza che ha caratterizzato l’agire e il pensare delle forme socio-politiche dominanti il Novecento, e che è riassumibile nel modello conflittuale «amico/nemico».
In tale modello i poli che si contrappongono tra loro, e radicalmente si rifiutano radicalmente quale forme eterogenee di civiltà, a ben vedere sono, non sono opposti, ma identici. Giacché la contrapposizione assoluta li obbliga, ciascuno per suo verso, a militarizzarsi contro l’altro, proiettando ogni forza critica verso l’esterno e vietandosi di usufruire di qualsiasi capacità, e creatività, di autocritica verso l’interno. Per cui, a muovere da quella logica identitaria, non c’è, in effetti, possibilità alcuna di trasformazione storica e di vera emancipazione sociale.
È ben noto del resto quanto il pensiero di Carl Schmitt, eroe celebrato di quella riduttiva e semplicistica teoria della politica, sia stato ben lontano, come tutti sanno, da qualsiasi dimestichezza con una riflessione filosoficamente accurata su temi come quelli dell’identità e l’opposizione. Viceversa il comunismo eretico è quanto s’è provato, in tutto l’arco del Novecento e nella varia configurazione degli autori che vengono iscritti in quella formula, a pensare l’organizzazione, teorica e pratica, di un comunismo che non derivasse il suo agire dai modelli della guerra civile e di classe e della guerra tra Stati – che non pensasse cioè solo in negativo – ma che, in modo autoriflesso, guardasse in sé, a coniugare tipologie organizzative e modalità nuove di relazione umana, in tutti i campi a partire da quello del lavoro, che contenessero i livelli più bassi possibile di repressione, disuguaglianza e autoritarismo. Si pensi ad esempio, per quanto riguarda il comunismo eretico italiano del secondo dopoguerra, a percorsi come quelli di Danilo Montaldi, Raniero Panieri e Franco Fortini: il primo con il suo andare all’esperienza di vita proletaria, alla storia e biografia concreta dei militanti, alla formazione dei gruppi di base, fuori dell’organizzazione burocratizzata dei partiti della sinistra e della loro ricerca di mediazione sociale con i ceti medi; il secondo con la critica della neutralità della tecnica e per un socialismo della democrazia diretta; il terzo alla ricerca di una inclusione possibile nell’orizzonte dell’egualitarismo e dell’universalismo comunista dei valori e delle problematiche dell’esistenza individuale, con la sua insopprimibile emotività, caducità corporea, irripetibilità e mortalità.
Voci e percorsi, che non potevano che essere di minoranza estrema, schiacciati e soffocati, com’erano, dal clima della guerra fredda e dagli arroccamenti della logica dicotomica che ne derivava. Dalla quale furono invece pesantemente condizionati molti degli intellettuali, spesso ridotti al rango di propagandisti, che avevano aderito in Italia a un Pci che, a ben vedere, già a metà degli anni Cinquanta, con la neutralizzazione nazionalistica e riformistica dell’opera di Gramsci compiuta dall’abilità di Togliatti, aveva esaurito la sua capacità di produrre una vera egemonia culturale. E che giunsero ben presto a testimoniare le paradossali diagnosi da parte del Pci sulle presunte arretratezze del capitalismo italiano, proprio mentre stava maturando lo sviluppo del miracolo economico, e soprattutto come testimoniò l’atteggiamento sostanzialmente acritico nei confronto dell’Urss, anche dopo la crisi ungherese del ’56.
Prospettiva mondiale
Lo sguardo dei molti curatori che hanno partecipato alla stesura del volume è, come s’è detto, non limitato alla sola Italia, bensì esteso all’intera Europa, in saggi che coprono sia quanto è accaduto sul piano reale delle lotte politiche e dei conflitti sociali che su quello ideale dei convincimenti e delle ideologie, sia nella loro dimensione collettiva di ideologie collettive che nella loro formulazione di filosofie e teorie individuali. Dalle rivolte nel socialismo reale e le lotte operaie in Polonia, al maggio francese, al Sessantotto in Italia e in Germania, al dissenso russo; da Socialisme ou Barbarie e «L’internazionale situazionista» all’operaismo italiano, alla British New Left, al femminismo; da Sartre, Althusser, Jürgen Krahl, per citarne solo alcuni, a Günther Anders, a Guy Debord, Michel Foucault, Hannah Arendt; da Lelio Basso, Lefebvre, Timpanaro a Clastres, Deleuze, Patocka.
Uno degli intenti dell’opera è infatti anche quello di ritornare ad approfondire e a meditare le connessioni che si sono date tra piano reale e piano ideale, tra movimenti sociali e movimenti d’idee, soprattutto quando, come a partire dal ’68, le idee del comunismo eretico, e di un complessivo pensiero critico del comunismo dei partiti e degli Stati, escono dal ghetto minoritario in cui le avevano emarginate, almeno per tutto il ventennio postbellico, le ideologie dominanti del liberalismo capitalistico e dello stalinismo, e provano a farsi alimento di comportamenti generalizzati e di massa.
Ovviamente qui non si può fare cenno alcuno al contenuto e alle tematiche degli specifici contributi, la cui varietà e agilità espositiva costituisce per altro il valore anche letterario ed espositivo di un’opera in cui ogni voce si costituisce come un capitolo in sé sufficientemente concluso e si propone perciò come facile lettura a chi, soprattutto delle giovani generazioni, si volesse avvicinare a questa singolare storia riassuntiva del Novecento.
Ma non si può non sottolineare l’utilità della lettura per chi, in particolare, voglia appunto tornare a pensare e a problematizzare quanto è accaduto in Europa con i movimenti antisistemici degli anni Sessanta e Settanta, su quali siano state, rispetto alla tradizione, le contrapposizioni di valori e le rotture teoriche più significative, quale le loro insufficienze, anche radicali e drammatiche, e quanto, da tutto ciò, rimandi a un’idea di comunismo, non da cancellare, bensì da ripensare profondamente per il futuro, appunto senza rimuovere quanto di meglio ha in tal senso sedimentato l’Altronovecento. Basti pensare alla questione di fondo del perché quei movimenti non siano stati capaci di tradurre la loro protesta, pure prolungata e radicale, in una proposta egemonica di emancipazione e trasformazione sociale.
Del perché cioè quegli anni di mobilitazione collettiva, estesa a pressoché tutti gli ambiti della società, si siano poi rovesciati a partire dagli anni Ottanta nel rifiuto delle ideologie, di ogni ipotesi di cambiamento sistematico e globale dell’assetto sociale, nell’accettazione, con il crollo dell’Urss nel 1989, del capitalismo quale orizzonte unico, per quanto mitigabile, di civiltà. Tanto che di quegli anni di rivolta, come frutto migliore, è rimasto solo il femminismo, con la sua giusta attenzione alle tematiche antropologiche della differenza di genere, ai sentimenti, al corpo, ma con la sua rinuncia strutturale alla politica, quale cultura e ricerca della fuoriuscita dal capitalismo.
La dialettica negata
Del resto produrre egemonia da parte delle culture del Sessantotto avrebbe significato mettere in campo, accanto alla forza della negazione, una forza di confronto, di discussione e di sintesi che per lo più è mancata, a motivo di una corriva disposizione all’autosufficienza e di un sempre troppo rapido trapassare dalla teoria alla prassi. Così, sul piano più propriamente teorico, prima la riflessione di Louis Althusser e dei suoi «allievi», con la sua pretesa di fondare la scienza della storia e la società del capitale a muovere dallo strutturalismo linguistico invece che dalla tradizione dialettica, poi la filosofia francese del desiderio, della dispersione rizomatica, del differenzialismo e dell’evenemenziale hanno potuto consegnare il ribellismo delle generazioni degli anni Sessanta e Settanta a una contrapposizione astratta a tutto quell’orizzonte dialettico, di’ispirazione hegeliana, che aveva costituito, nel bene e nel male, la cultura del marxismo ottocentesco e della prima metà del Novecento.
E proprio l’incapacità di mediare Germania e Francia, pensiero dialettico dell’identità e pensiero della differenza, è stata, per quelle generazioni, a parere di chi scrive, sul piano delle idealità, il segno della più grave insufficienza conoscitiva e politica. Basti pensare ad esempio quanto la valorizzazione dello scientismo operata da Galvano della Volpe e dalla sua scuola, con la sconcertante riduzione della filosofia di Hegel a teologia dissimulata d’ispirazione neoplatonica, se da un lato consentiva la presa di distanza dal continuismo storicista togliattiano, dall’altro disponeva buona parte del marxismo critico degli anni Sessanta al rifiuto radicale di ogni dimensione dialettica. Ma di tutto ciò, ovviamente, c’è solo da discutere e i volumi sull’Altronovecento della Fondazione Micheletti costituiscono un’ottima occasione per tornare a confrontarci sui temi di fondo del nostro passato e del nostro avvenire.

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IL COMUNISMO ERETICO
Un panorama che include esperienze e teorici innovatori del pensiero critico

 L’opera che la Fondazione Luigi Micheletti di Brescia è decisamente ambiziosa. Giunta al secondo volume, ha finora mantenuto la promessa di offrire un panorama niente affatto conformista sul comunismo mondiale. Dopo l’esperienza del marxismo novecentesco, questo secondo appuntamento è dedicato alle culture politiche minoritarie che hanno puntato a una trasformazione radicale della società cercando di tenere insieme tanto l’eguaglianza che la libertà. Culture politiche e esperienze spesso messe ai margini sia di partiti comunisti, ma anche dei partiti socialdemocratici. Così nel volume (Jaca Book, pp. 860, euro 48) sono presenti saggi sull’esperienza di «Socialisme ou Barbarie», del situazionismo e su quei filoni di ricerca maturati nei paesi del socialismo reale che, sebbene all’opposizione e repressi dallo Stato, puntavano comunque alla costruzione di una società di eguali e liberi (da segnalare il saggio dedicato a Rudolf Bahro, il teorico marxista della Germania est che svolse una critica alla concezione del progresso incentrato sulla tecno-scienza). Interessante sono anche i saggi dedicati alla riflessione di Louis Althusser, della «New left» inglese e ai «francofortesi», nonché a quei teorici, come Ivan Ilich e Jacques Ellul, che non sono mai stati né comunisti né marxisti, ma che hanno comunque fortemente influenzato i movimenti sociali postsessantoteschi. Da segnalare anche la parte dedicata all’Italia e a personaggi rilevanti come Danilo Montaldi, Lelio Basso e Raniero Panzieri.

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