L’autobiografia romanzata di Herta Müller: rabbia e felicità nella Romania di Ceausescu
L’autobiografia romanzata di Herta Müller: rabbia e felicità nella Romania di Ceausescu
A nche nell’ultimo suo romanzo tradotto in Italia, Oggi avrei preferito non incontrarmi (Feltrinelli, pp. 190, e 16, traduzione di Margherita Carbonaro), Herta Müller, romena di lingua tedesca, premio Nobel per la letteratura nel 2009, che questa sera sarà alla Milanesiana in conversazione con Claudio Magris, torna a narrare della sua vita sotto il regime di Ceausescu.
Del resto, per liberarsi di un’esperienza simile, durata tutto il tempo della giovinezza e interrotta soltanto a 34 anni, all’epoca della sua forzata emigrazione in Germania, l’unico rimedio possibile è probabilmente scriverne e scriverne ancora. Autobiografia — romanzata — di una donna testarda sotto la dittatura, potrebbe recitare il sottotitolo, perché, anche senza aver letto i suoi precedenti libri, non si può non avere la sensazione che la protagonista senza nome sia un’alter ego dell’autrice che, sulla propria carne ha provato i malefici effetti del sistema totalitario fondato sullo spionaggio, sulla violenza e sulla paura. E cioè l’avvelenamento dell’intera vita, dei rapporti d’amore e di amicizia, di quelli professionali e di vicinato, di quelli parentali e perfino familiari.
Simile a un’infezione che intacca ogni cosa, la città e la campagna, le case e i paesaggi, le strade e le fabbriche, perfino le bevande e il cibo, la dittatura non risparmia nulla lasciando marcire qualsiasi pur piccola felicità. Neppure la testarda protagonista ne è risparmiata, il quotidiano veleno la intacca, la corrode, la incattivisce, tanto che, come ben spiega il titolo, ci sono certi giorni nei quali lei stessa non vorrebbe avere niente a che fare con sé. La storia si esaurisce tutta nel tempo di un viaggio in autobus sul quale deve salire per raggiungere la sede dei servizi segreti dove— in quanto sospetta, perché, appunto, testarda — è stata convocata l’ennesima volta per un odiato e temuto interrogatorio.
Durante il viaggio, in provvisoria compagnia di altri diretti ad altre fermate, ma comunque disgraziati come lei, la protagonista, rievoca persone e avvenimenti, rivede volti, riascolta voci, allinea e mescola in un continuo alternarsi di flashback di fatti accaduti in tempi diversi: il lager stalinista nel quale furono deportati i nonni, l’ammazzamento dell’amica Lilli alla frontiera con l’Ungheria, le angherie del suocero di professione delatore, la morte in ospedale, per eccesso di anestesia, di un suo compagno d’infanzia, il camion grigio della Securitate che ha inseguito il motociclista fino a buttarlo nel fosso, le spiate del collega che l’hanno fatta licenziare, il vino aspro, i cibi orribili, i vestiti di cattivo gusto.
La scrittura di Herta Müller corre veloce come la vita, senza fermarsi, inanellando freneticamente presente e passato, sogni e realtà, paure, risentimenti, rabbie, felicità. Poca felicità, per essere sinceri, schegge piuttosto, improvvisi raggi di sole del tutto passeggeri che un paio di volte riescono a irrompere tra le nuvole per esserne poi subito nuovamente ingoiati. Segue il ritmo dei pensieri, la scrittura, e come i pensieri procede, in ordine disordinato, per associazioni simili a segmenti di una linea che si allontanano dal punto di partenza, tracciando, di passaggio in passaggio, un percorso imprevedibile, salvo poi, richiamati all’ordine, tornare al punto di partenza. Non ci sono capitoli nel romanzo, non ci sono spazi di divisione o separazione, il fiume della narrazione fluisce senza interrompersi, limitato soltanto da virgole e punti.
Parimenti, non esistono virgolette per accompagnare il discorso diretto che, perciò, fila via in libertà senza tanti «egli disse» ed «io risposi» , come se fosse tutto un lungo recitato. Il lettore fa presto a mettersi in sintonia e ad abituarsi all’implacabile ansia di racconto dell’autrice, alla sua corsa impaziente, alla sua indifferenza, in un certo senso, nei confronti di chi legge: che mi segua se ce la fa— sembra, infatti, lasciare intendere — altrimenti se ne stia comodo a casa. Se però a casa non si vuole stare, dopo non moltissime pagine, una volta allenati al ritmo, si comincerà a cogliere la magia, la poesia di questo instancabile, urgente galoppo. E si capiranno, ovviamente, le cose dette, spesso con spietato realismo, e però anche quelle non dette, soltanto suggerite per un istante e subito abbandonate perché troppo dolorose: come l’immagine delle ciliegie rosso scure che la grassa passeggera dell’autobus sta mangiando con ingordigia da un cartoccio, immagine insopportabile per la protagonista del romanzo perché rievoca il corpo insanguinato della giovane amica Lilli sbranato dai cani poliziotto dopo che, per fermare la sua fuga dal Paese, una guardia di confine— poi ricompensata con una vacanza premio— le aveva sparato come si spara a una lepre.
Solo che Herta Müller i due episodi li rievoca in un solo lampo, spendendoci due, tre righe al massimo, non il doppio o il triplo come è fatto qui.
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