Romano Alquati, l’industrialità  dell’agire

Una giornata di studio a un anno dalla morte. Nel suo «Corso 2000», uscito come dispensa, un’analisi serrata della «salarietà » e dello sfruttamento dell’intelligenza di coloro che producono

Una giornata di studio a un anno dalla morte. Nel suo «Corso 2000», uscito come dispensa, un’analisi serrata della «salarietà » e dello sfruttamento dell’intelligenza di coloro che producono

Fino ai primi anni dello scorso decennio Romano Alquati ha continuato a scrivere e a insegnare, anche se i testi dell’ultima fase della sua vita sono conosciuti solo da cerchie ristrette. Uscito in forma di dispensa, il «Corso del 2000 di sociologia industriale» è uno di questi scritti e, come altri di Alquati, ha l’apparenza di un testo irto di rimandi, sospensioni, dissolvenze. A una lettura appena attenta, però, il «Corso 2000» si rivela un saggio notevole, teso a rilanciare lo studio della società industriale contro una sociologia generale che oggi «rimuove l’industrialità dell’agire». Un’industrialità, nota l’autore, in cui è immerso circa un quinto dell’umanità, mentre gli altri quattro quinti ne sono ai margini. A prima vista, l’analisi risulta impassibile rispetto ai problemi politici; tuttavia, non appena ci si addentra nella prosa parlata di queste lezioni, la passione politica traspare nella forma interrogativa in cui Alquati pone agli interlocutori/interlocutrici le aporie della nostra condizione.
Come sempre, non sorprende la franchezza dell’autore nei confronti di posizioni che egli giudica superate. Neppure il Marx dei Lineamenti fondamentali viene risparmiato. Contrariamente a quel Marx, che definiva la società come «la somma delle relazioni, dei rapporti in cui…(gli) individui stanno l’uno rispetto all’altro», Alquati presenta la sua definizione di società spingendola in avanti verso il suo contesto industriale. Tratto differenziale di tale società rispetto al passato pre-industriale e ancora largamente comunitario è la condizione della «salarietà». Nelle sue declinazioni la condizione salariale è il «connettente» di un edificio sociale che Alquati non esita a definire «una piramide (con al vertice il dominio)». Il dominio è tutt’altro che insensato – per quelli che lo detengono. I due macro-ruoli, asimmetricamente legati e dotati di reciproco potere, continuano a essere quelli del padrone e del proletario. Gli individui lavorano industrialmente come operatori addetti a funzioni pre-scomposte e ridistribuite, diventando tanto meno «individui» e tanto più «singoli» quanto più si vogliono membri di una società individualista. In breve, la nostra unicità tende a diventare tutt’altro che unica.
Le spinte oggettive verso la trasformazione dell’individuo in «individuo presunto» oppure in «singolo» possono essere frenate o addirittura invertite dal conflitto: paradossalmente «l’individuazione è tanto più forte (e libera) quanto più ha luogo in un collettivo forte e libero, almeno con momenti davvero autonomi» che tengano lontano il connubio di tecnoscienza e capitalismo. Alquati continua a schierarsi per le ragioni di una vera individuazione, con la coerenza che gli veniva già riconosciuta nel corso delle sue giovanili esperienze politiche.: «…lo sguardo funzionalista e oggettivante della tecnica sull’umanità e sul mondo ha portato oggi anche a distruzioni e a una distruttività che va combattuta tornando alle radici sia della tecnica sia della tecnoscienza».
Nel tentativo di sottrarsi alla «tremenda pressione della necessità» o di attenuarla, «gli spiriti vitali… hanno sviluppato qualcosa che per migliorare la vita dà anche la morte». Ben sapendo quale sia la posta in gioco, Alquati si schiera: «La storia ha mostrato e mostra che non ci si può servire del capitalismo come mezzo per fini diversi o meglio in contrasto coi suoi… Per farlo un poco se ne pagano enormi prezzi… i capitalisti… hanno un’immensa potenza di persuasione e di coazione e la usano sempre, anche talora con grande e mostruosa violenza». Tuttavia al capitalismo può succedere «un sistema, una civiltà, anche peggiore!».
Coerente con la sua critica più che quarantennale al socialismo reale e ai suoi epigoni, Alquati sembra stabilire all’inizio del nuovo millennio una correlazione positiva tra un generale atteggiamento difensivo dei salariati e la loro asserita accettazione dell’offerta capitalistica. Si potrebbe obiettare che oggi l’atteggiamento difensivo e consumistico del salario non è costante nel tempo né tantomeno uniforme globalmente. Tuttavia per Alquati tale obiezione non è cruciale. Essenziale è di contro il tema dell’asservimento nella sua forma di precarietà salariale, oltre che nelle sue manifestazioni più crude di traffico di esseri umani, fino alla regressione alla schiavitù: «…i classici escludevano sia la schiavitù ed il servilismo, che il ritorno di lavoratori formalmente autonomi. Li ritenevano estinti irreversibilmente; ma si sbagliavano».
Altrettanto coerente nel tempo è la sua analisi della pervasività del fare industriale e dello sfruttamento dell’intelligenza di coloro che producono, secondo considerazioni che muovono contro quello che egli chiama «il tangibilismo» delle mani callose e contro il suo opposto, la «immaterialità» produttiva come processo senza precedenti, quasi che nel passato non avessero agito «uomini interi» ma solo «mere mani e stomaci». La polemica non è sotterranea: «… non posso defilarmi» dal cogliere la «(iper)industrialità nella società complessiva… come fa invece la grandissima maggioranza dei sociologi odierni». Alquati non svicola dai due temi che di rado vengono associati: la pressione esercitata dai ritmi necessari alla sopravvivenza su gran parte dell’umanità e il ricorso alla dimensione religiosa per sollevarsi dagli «abissi terrificanti» delle devastazioni mentali che la modernità provoca. E si apre qui un’avvertenza, destinata alla ricerca sociale affinché non si concentri solo «su fenomeni e teorie di basso livello di realtà sociale, locali, di frammento».
Si tratta sempre di questioni sulle quali Alquati si pone sul terreno del dialogo, riconoscendo il contributo al dibattito offerto dalla differenza e dal contrasto. In uno squarcio insolito nel suo tempo, Alquati rinvia a una prossima lettura non sequenziale del suo testo, quando il computer consentirà «al cosiddetto libero navigante» di stabilire la successione degli argomenti in modo da essere un po’ più libero. Allora l’approccio reticolare potrà sfociare «nell’effettiva cooperazione libera ed aperta». È questa una delle tante prospettive per l’avvenire che Romano Alquati ci lascia e per le quali si è speso nel corso di un’esistenza punteggiata da silenziosi sacrifici ma ricca di una grande generosità nei confronti di chi lo avvicinava, per «camminare insieme», come egli stesso era solito dire e soprattutto fare.

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