Quell’esproprio di massa alla leggenda Aiazzone

LA STORIA di ogni caduta ha un finale feroce. La gente, questo residuo di un’antropologia compassionevole, abbatte, saccheggia, svelle. Che si tratti di una secolare dittatura o di un mobilificio di fine secolo. Nell’epilogo della vicenda Aiazzone c’è abbastanza per raccontarci come eravamo e come siamo.

LA STORIA di ogni caduta ha un finale feroce. La gente, questo residuo di un’antropologia compassionevole, abbatte, saccheggia, svelle. Che si tratti di una secolare dittatura o di un mobilificio di fine secolo. Nell’epilogo della vicenda Aiazzone c’è abbastanza per raccontarci come eravamo e come siamo.

Il marchio era quello di un´epoca, o del suo succedaneo breve, nel tempo in cui ogni generazione dura un lustro e le ere non arrivano alla maggiore età. Tuttavia ha lasciato un segno. Ci ha regalato unità nazionale: “isole comprese”. Ha evocato momenti difficili da immaginare: il pranzo a Biella con gli architetti. Soltanto il capitolo migliore di un libro di Sandro Veronesi, “Cronache italiane”, ha svelato a noi profani quel che per altri è stato sacro: il viaggio in comitiva alla Medjugorie dei salotti, l´apparizione del tinello a rate, il tabernacolare talamo a due piazze materasso incluso.
Era la leggenda di un´Italia di provincia che si fa motore del Paese. L´imprenditoria corsara smerciava sogni raggiungibili e te li consegnava a domicilio. Poi è arrivata l´Ikea e buonanotte ai sognatori, giacché l´unica forma realizzata di socialdemocrazia resta quella scandinava e noi qui a studiar botanica tra querce, ulivi e rose nel pugno. Di Aiazzone è precipitato prima l´aereo, poi la società. Tramontando ci ha regalato un insegnamento di cui nessuno ha saputo tener conto: molta televisione è efficace, troppa televisione è letale. Finì con la cancellazione del logo dai camion delle consegne per non farsi irridere dai vicini. Finì con Luigi Crespi che ne usava il caso come esempio di controindicazione al presenzialismo televisivo. Finì? No. Ricominciò, con la riesumazione del marchio da parte di imprenditori dai fangosi trascorsi. Come ogni tragedia predestinandosi alla reincarnazione in farsa.
Poteva sopravvivere Aiazzone in un tempo in cui le tivù locali sono state soppiantate dalle schiere di canali tematici di Murdoch, gli architetti sono divenuti una categoria a larga diffusione e (perfino) “la gente” sembra stanca degli imbonitori? La risposta l´ha data il giudice fallimentare. Chiudendo i cancelli, ma lasciando fuori dipendenti che non avevano ricevuto le paghe e clienti che non avevano ricevuto i mobili. La loro attesa avrebbe dovuto essere lunga e, probabilmente, vana. Prima che tutto svaporasse nelle scatole cinesi delle responsabilità, hanno deciso di ridurre i danni e farsi giustizia da soli. Finché qualcosa da prendere c´era sono andati a prenderselo.
Anche in questa reazione ci sono fattori sintomatici. Uno dei primi è il metodo di aggregazione. Come già nelle recenti elezioni amministrative sono stati il web e il passaparola a fare da richiamo. La massa creditizia non dispone di canali televisivi, ma ha libero accesso a Facebook e alle maglie della rete: qui è nata e cresciuta l´idea della giustizia preventiva, di un esproprio proletario di massa. A differenza di quelli messi in atto al tempo in cui Aiazzone prosperava, non ha avuto per oggetto beni altrimenti inaccessibili, ma oggetti a cui l´accesso era già avvenuto, regolarmente pagati e mai ottenuti. La circostanza ha determinato una inedita alleanza. Nelle cronache (vagamente festose benché contemplino reati) si parla di bergamaschi e nordafricani uniti nell´intento di portare ai cancelli furgoni e tir da riempire di letti, poltrone e comò. Si fossero limitati a far sparire tutto, lasciando vuoto il magazzino, fino all´ultima scaffalatura, come nel capolavoro di Alan Bennett “Nudi e crudi”, sarebbero stati quasi ammirevoli: i giustizieri della zona notte. Come ogni branco hanno però travalicato i confini della missione, annusato l´odore del sangue e del compensato in disfacimento, tracimato nello sciacallaggio e infierito sull´inermità delle cose.
Certo, il sacco di Pognano non ha la gravità del saccheggio avvenuto al museo di Bagdad, ma le immagini dei pavimenti divelti per asportarne un quadratone, delle amputazioni subite dagli impianti elettrici e dalla muratura stessa raccontano l´eterna storia della giustizia che si smarrisce cedendo il passo alla vendetta. Dicono di un bisogno remoto di non limitarsi ad avere quel che spetta, ma di farla pagare con gli interessi. Massacrando il magazzino di Aiazzone è come avessero cercato di punire un´icona dei miraggi e in definitiva la propria credulità. I primi ad abbeverarsi all´eterna fonte dei supersconti devono essersi sentiti furbi, gli ultimi, rimasti a bocca asciutta, dei pirla. Tremenda è l´ira dei miti, ma ancor più quella degli stolti. Meglio sarebbe stato per il marchio delle illusioni non confidare in una seconda vita. La prima era fatta di truciolato, la seconda d´aria. E per quest´ultima merce diventa sempre più difficile trovare una paziente clientela.

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