Quel che è stato dei Mille al ritorno dal Volturno

La «lunga notte» dei garibaldini parla di suicidi, emigrazioni, viaggi rivoluzionari. E di battaglie politiche condotte più fuori che dentro il parlamento

 

La «lunga notte» dei garibaldini parla di suicidi, emigrazioni, viaggi rivoluzionari. E di battaglie politiche condotte più fuori che dentro il parlamento

 

Roma era ancora proprietà pontificia quando Alessandro Pavia, fotografo genovese e garibaldino nell’animo, terminò la prima stampa de «L’album dei Mille»: la prefazione di Giuseppe Garibaldi in persona apriva la serie delle fotografie – originali o ristampate – di tutte le 1089 camicie rosse (undici anni il più giovane, sessantanove il più vecchio, una sola donna celata in abiti maschili) che sette anni prima erano partite da Quarto per sbarcare a Marsala e da lì risalire la penisola fin quasi alla sua futura capitale. Cent’anni prima dei fratelli Panini e ben più epicamente, quella poteva essere la prima raccolta di figurine della storia mondiale.
Per celebrare l’impresa dei Mille e rientrare delle spese, Pavia contava soprattutto sulle istituzioni del novello stato unitario, a partire dagli oltre seimila municipi, presentando l’Album come una sorta di libro fondativo, una Bibbia laica e tutta italiana su cui far crescere le future biblioteche comunali. Non andò così, sulle ragioni patriottiche e didattiche ebbero la meglio quelle economiche, perché il prezzo di vendita del volume era alto e nonostante i buoni auspici del Generale, le prenotazioni si contarono sulle dita delle mani. Dell’Album non rimase che il prototipo, trasformato presto in documento storico, primo censimento dei Mille che servì ad attribuire pensioni e medaglie. Ma quel fallimento non fu dovuto solo agli alti costi e a un marketing insufficiente. Il fatto è che lo stato italiano – sabaudo -, i suoi gruppi dirigenti, le sue burocrazie, avevano ben poca voglia di celebrare i Mille, provavano una certa difficoltà a inserire quella massa di «avventurieri» nello scorrere della storia-patria. Anche perché, nel frattempo, le camicie rosse non è che si fossero propriamente pacificate e dissolte dopo la smobilitazione decisa dai generali di Vittorio Emanuele II, una volta consegnato da Garibaldi al Savoia il Regno del sud. No, molti di loro continuarono a puntare su Roma, cercare altre rivoluzioni in giro per l’Europa, odiare i tiranni o, più semplicemente, coltivare uno spirito ribelle, anche quando ritornavano alle precedenti occupazioni o emigravano all’estero perché «l’Italia nascente non era quella desiderata e sognata». Non tutti, così, per la verità. Qualche decina di reduci, più «flessibili», riuscirono a ricavarsi un futuro da classe dirigente del nuovo stato. Come sempre avviene.
Che ne è stato dei Mille – dopo l’omonima spedizione – viene ora ricostruito da Paolo Brogi in un appassionante libro, La lunga notte dei Mille (Aliberti editore, pp. 320, euro 19), che già dal titolo si distacca dalle tante produzioni retoriche che hanno accompagnato i 150 anni dell’unità italiana. Lavoro intrigrante, quello di Brogi, se non altro perché ricostruisce e incrocia tra loro storie in gran parte sconosciute o dimenticate. E basterebbe scorrere le note che alla fine del volume danno conto della sorte dei reduci dello sbarco di Marsala, per capire quanto quella storia non abbia avuto un esito armonico e pacificante, comprenderne la profondità di passioni e l’asperità della sorte di tanti suoi protagonisti. Perché molto spesso la verità si capisce meglio da come le storie finiscono e quelle dei Mille parlano di ventiquattro ricoverati in manicomio (anche in quello che a Quarto beffardamente sorge a pochi metri dal luogo di partenza della famosa spedizione), sedici suicidi (anche per indigenza), decine di immigrati (soprattutto in Sudamerica). La notte dei Mille parla di viaggi rivoluzionari in Polonia – contro lo zar di tutte le Russie – che finiscono in morti o deportazioni in Siberia; di spedizioni tentate o programmate nei Balcani contro gli Asburgo o nella Francia comunarda; di Aspromonte, esili a Caprera, carceri italiane. E di tante battaglie politiche, più fuori che dentro il Parlamento. Come quella del garibaldino trentino Ergisto Bezzi che se la prende con l’ex compagno di spedizione Crispi – uno di quelli che lo spazio di potere se l’era nel frattempo conquistato – un po’ per il sacrificio dell’italianità di trento alle alleanze con Austria e Germania, molto per le avventure coloniali in Abissinia. Contro cui il Bezzi tuona affermando che «la civiltà non si esporta a colpi di cannone», quasi come un pacifista del XXI° secolo. O come le avventure sudamericane, tra Argentina e Cile, di medici e preti (tra i Mille ce n’erano cinque) che esportano sì la civiltà, ma quella della dignità umana in lotta contro povertà e latifondo. E laggiù spendono gli ultimi anni della loro vita, osservando con malinconica distanza le evoluzioni trasformiste della loro Italia.
Vicende che lo stato di allora non gradiva troppo, anche a costo di abbandonare – o liquidare con un assegno mensile – la «meglio gioventù» del tempo. Come, in fondo, ha sempre continuato a fare a ogni strettoia della propria storia.

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