Quattro piccoli Maradona negli artigli della camorra

Ancora una storia dove lo sport è protagonista, l’elemento che può salvare da una vita d’inferno. Dopo Lionel Messi, dopo i pugili Clemente Russo (Tatanka) e Mirko Valentino, ora Roberto Saviano scrive il racconto di quattro ragazzini di Napoli che giocano al calcio nei vicoli. Si chiamano Dario, Rino, Giovanni, Giuseppe. I nomi sono stati cambiati, ma la loro è una storia vera, come quella di Messi o di Tatanka. Solo che per loro il riscatto sperato non càè, il sogno non si avvera.

Ancora una storia dove lo sport è protagonista, l’elemento che può salvare da una vita d’inferno. Dopo Lionel Messi, dopo i pugili Clemente Russo (Tatanka) e Mirko Valentino, ora Roberto Saviano scrive il racconto di quattro ragazzini di Napoli che giocano al calcio nei vicoli. Si chiamano Dario, Rino, Giovanni, Giuseppe. I nomi sono stati cambiati, ma la loro è una storia vera, come quella di Messi o di Tatanka. Solo che per loro il riscatto sperato non càè, il sogno non si avvera.

Il titolo del racconto, Super Santos (il Santos era la squadra di Pelé), lo dà la marca di una palla di plastica — il pallone di cuoio si usa solo sui veri campi — molto speciale, arancione, con delle canalette nere. È resistente, risponde bene al tocco del calciatore, garantisce effetti e traiettorie anche quando è calciato con tutta la forza. Insomma, è il bene più prezioso per chi s’immagina, tra auto parcheggiate, muri scrostati, saracinesche di negozi, di replicare le azioni famose di Maradona o di Evair. «Napoli è rimasta una delle ultime città in Europa dove puoi vedere ancora ragazzini giocare a pallone per strada, a ogni ora» spiega Saviano. «Piazze, vicoli, saracinesche diventano campetti di gioco, porte, aree di rigore. Volevo raccontare le sensazioni di chi è cresciuto in questi territori e si è trovato a giocare a pallone in strada, trasformando gli spazi spesso più inadatti al gioco in opportunità di divertimento. Chi non ha mai giocato a pallone per strada non sa cosa significa sentire propria sin nella carne una città. E poi questa mia storia racconta di come il gioco stesso sia stato utilizzato dalla criminalità organizzata per i suoi fini. Come basta spostare di pochissimo il baricentro di una vicenda, e dalla bellezza più candida come il gioco passi al buio della corruzione e della compromissione» . Dario e i suoi compagni giocano bene, con passione e talento. Danno spettacolo, la gente si ferma a guardarli. Anche Tonino Porcello, nuovo capozona della camorra, li ha notati e gli propone un patto. La piazza sarà tutta per loro, il cartolaio dell’angolo fornisce i palloni gratis, dà i Super Santos nuovi quando uno si perde o si sgonfia. E i ragazzi, in cambio, quando vedono arrivare la polizia dovranno buttare il pallone in fondo alla strada e cominciare a urlare: ’ o pallone, ’ o pallone. Sarà quello l’allarme per gli spacciatori, che così avranno il tempo di nascondere la droga. «Mi piace lo sport quando assume un significato che va oltre la disciplina in sé, quando diventa salvezza e riscatto» dice Saviano. «Mi attrae il talento. Mani o piedi, strategia o scaltrezza, forza e allenamento. Questo mi piace dello sport, la possibilità di realizzare qualcosa con la sola tua forza senza bisogno di altro: diritto, protezione, famiglia, coscienza. L’atleta ha solo se stesso. Quando questa alchimia si realizza, lo sport diventa metafora di tutto, diventa epica» . Ai quattro ragazzi, però, questa libertà non è concessa. Qualcuno del Napoli li convoca, potrebbero entrare nel vivaio della squadra, giocare tra i pulcini, però il capozona non vuole, il lavoro è lavoro. Si possono divertire tutti i giorni sulla loro piazzetta, ma oltre non potranno andare. Forse per rabbia, per rifarsi del torto subito, Dario un giorno non rispetta la regola: stanno arrivando i poliziotti e lui, invece di calciare lontano il pallone e cominciare a gridare, continua la sua azione proiettato verso la porta. Scatta una retata, arrestano i pusher. Il capozona lo convoca, lo prende a schiaffi, lo scaccia. Gli risparmia la vita, ma da quel giorno Dario è uno scomunicato. Gli altri tre, invece, rimangono. Passano gli anni, non giocano più al pallone, diventano affiliati del Sistema, riscuotono i soldi del commercio di droga, fanno servizi per capi e capetti. Poi, tutti e tre, dovranno portare da Brescia a Napoli un cuore da trapiantare a un camorrista, autore di stragi; il cuore, dicono, è quello di un bravo giocatore del Brescia morto in un incidente d’auto. Forse non è giusto che quel cuore lì finisca per salvare la vita di un assassino, però il lavoro è il lavoro, non si può sgarrare. E quindi obbediscono, senza sapere che nella guerra tra famiglie che sta cambiando la geografia della camorra, anche per i pesci piccoli come loro è già pronto un conto da pagare. Sembra che per questi ragazzi dei vicoli il destino sia scritto fin dall’inizio. Avrebbero potuto usare il loro talento sportivo diventando forse giocatori veri. Invece non hanno avuto altra scelta che quella di finire affiliati dal Sistema. «Non ho mai creduto al destino segnato da una realtà difficile. Non esiste l’assioma: quartiere povero uguale criminalità. Esistono piuttosto realtà drammatiche in cui se vuoi emanciparti, se hai talenti, spesso non c’è strada che ti possa premiare. La tragedia di questi luoghi è che il merito, l’esser bravo in qualcosa non ti porta a realizzarti, a guadagnare, a crescere. L’organizzazione criminale è un’impresa strutturata come un’azienda, e il dramma vero accade quando per diventare qualcuno, per mettere a frutto il tuo talento, ti affilî. È questa la vera rovina. Non quando il peggiore agisce facendo crimine, ma quando il migliore sceglie quella strada per affermarsi. In questo racconto cerco di mostrare come il talento sia stato rovinato, sprecato, umiliato…» . Storia vera di ragazzi dei vicoli, com’è vera la guerra delle famiglie che si spartiscono i paesi del Vesuviano. Ed è vera la storia del giornalista Luigi Necco, gambizzato per aver detto durante «90 ° minuto» che il presidente dell’Avellino Calcio, Antonio Sibilia, aveva consegnato a Raffaele Cutolo una medaglia d’oro con la dedica. La scena era avvenuta in tribunale, e Sibilia affidò il compito della consegna al calciatore simbolo dell’Avellino, il brasiliano Juary. «Era il 1980. Questo episodio» commenta Saviano, «scosse l’organizzazione criminale più sanguinaria e potente in quegli anni, tanto da spingerla a reagire. Ebbero più paura in quel momento del coraggio di un cronista sportivo che di decine di inchieste giudiziarie in corso. Purtroppo tanti non ricordano questa storia, non si è fatto niente per farla ricordare come merita» .

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