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“Ho solo difeso i serbi” Il boia di Srebrenica sfida la corte dell’Aja

  Mladic in aula: “Non ho paura di voi”    Prima udienza per l’ex generale accusato di genocidio e crimini contro l’umanità  Berretto militare e abito grigio ha rifiutato la formula “colpevole o innocente” 

  Mladic in aula: “Non ho paura di voi”    Prima udienza per l’ex generale accusato di genocidio e crimini contro l’umanità  Berretto militare e abito grigio ha rifiutato la formula “colpevole o innocente” 

SCHEVENINGEN – Sono le dieci e tre minuti del mattino quando le tende dietro il vetro antiproiettile che taglia l´aula del Tribunale dell´Onu per l´ex Jugoslavia si sollevano per mostrare Ratko Mladic, il boia di Srebrenica e Sarajevo, finalmente davanti ai suoi giudici. Uno spettacolo terribile e patetico. All´ingresso della Corte, il generale si alza faticosamente in piedi sorretto da due guardie. Si raddrizza come può. Poi con aria solenne porta la mano sinistra alla visiera di un incongruo cappellino da baseball in un perfetto saluto militare. Non gli hanno consentito di indossare la divisa, quella tuta mimetica che era diventata il simbolo del terrore nella Bosnia della pulizia etnica, delle fosse comuni, degli stupri e dei campi di sterminio. Ma anche così, nonostante un malconcio gessato grigio chiaro, con cravatta e camicia in tinta, nonostante la mano sinistra paralizzata, l´eloquio reso difficile dalle conseguenze di un ictus, il viso gonfio e invecchiato precocemente, Ratko Mladic conserva l´allure e lo sguardo di un uomo che è abituato a comandare. E a fare paura.
Una cosa il generale non si aspettava. Lui, che era abituato a mandare a morte centinaia di persone senza colpe, senza processo, con il semplice gesto di un dito, non era preparato all´impianto garantista di un processo regolare. E così, di fronte al presidente della Corte, l´olandese Alphons Orie, che gli chiede cortesemente se avesse ricevuto i capi di imputazione nella sua lingua, se avesse avuto modo di leggerli, se capisse la traduzione, se desiderasse fare dichiarazioni sul suo stato di salute o sul trattamento ricevuto, Mladic a poco a poco ritrova la baldanza perduta nei lunghi anni di clandestinità e nelle fasi concitate dell´arresto.
Sempre impettito sulla sedia, passa dalle prime dichiarazioni, «sono un uomo gravemente malato, ho bisogno di più tempo per leggere i capi di accusa», ad una orgogliosa rivendicazione del proprio operato, «io sono il generale Ratko Mladic, ho difeso il mio popolo e ora difendo me stesso». «Non voglio sentire neppure una parola del vostro atto di accusa». «Non ho paura di parlare davanti ai giornalisti di tutto il mondo». Si lancia perfino in una tirata, per la verità non molto lucida, sul fatto che «sono inutili queste vostre toghe, se devo essere ucciso preferisco che a farlo sia un poliziotto»: uno sfogo che forse rivela quali fossero le sue angosce più nascoste.
Il presidente del Tribunale, implacabile, legge un estratto delle trentasei pagine che contengono gli undici circostanziati capi di imputazione: genocidio, sterminio, omicidio, deportazioni, torture, crimini contro l´umanità, violazione delle leggi di guerra, presa di ostaggi (i soldati delle Nazioni Unite), attacchi contro civili inermi. Impassibile sulla poltrona dove già si sono seduti i suoi complici Slobodan Milosevic e Radovan Karadzic, il generale ascolta. All´evocazione dell´eccidio di Srebrenica scuote violentemente il capo. Invece quando viene ricordata la presa in ostaggio dei soldati Onu, usati come scudi umani per fermare i bombardamenti della Nato, un ghigno gli si dipinge sul volto e il capo, forse involontariamente, si china in un gesto di assenso.
Alla fine, comunque, l´imputato rifiuta di dichiararsi colpevole o innocente rispetto alle accuse, che definisce «mostruose» e «odiose». Chiede tempo, «almeno due mesi», per leggere nel dettaglio i capi di imputazione. Ottiene trenta giorni di proroga: ricomparirà in aula il 4 luglio. Ma il processo vero e proprio, quello che idealmente chiuderà vent´anni di Calvario delle guerre balcaniche, non comincerà prima dell´autunno.
Nell´aula, al di qua del vetro antiproiettile che isola dal pubblico l´imputato, la corte, i cancellieri e i procuratori, una decina di superstiti di Srebrenica seguono in silenzio lo svolgimento dell´udienza. C´è un gruppetto di donne attempate, venute apposta dalla Bosnia: qualcuna piange, qualcuna alza un dito minacciosa verso il generale, senza profferire parola. E c´è un manipolo di uomini più giovani, ragazzi scampati al massacro nel ‘95 e che ora vivono e lavorano in Olanda. «Quando sono arrivati i serbi io sono fuggito nei boschi, ed ora sono qui. Mio padre e mio fratello si sono messi sotto la protezione dei caschi blu olandesi. E sono stati uccisi», racconta Farhudin Alic, che aveva 28 anni nel ‘95 e che ora vive qui con la moglie e tre figli.
Ogni tanto lo sguardo gelido di Mladic si sposta verso destra, oltre il vetro, scorre sul pubblico. Il generale accenna un sorriso, un saluto ironico. Forse non ha capito che tra la gente ci sono le sue vittime. O forse sì. «Ero corsa a inginocchiarmi davanti a lui, chiedendo che liberasse mio figlio – racconta Munira Subasic, una delle “madri di Srebrenica” che non gli stacca gli occhi di dosso – Mladic mi aveva fatto alzare, aveva chiesto come si chiamasse il ragazzo. Aveva promesso di liberarlo. Sto ancora cercando il suo cadavere. Ma lui, almeno, l´assassino, adesso ce l´ho davanti».

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