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Omicidio De Mauro, assolto Totò Riina “Prove insufficienti, colpa dei depistatori”

Palermo, la sentenza della corte d’Assise. L’ex Sisde Contrada accusato di falsa testimonianza. La figlia del giornalista: vergogna. Non sono bastati i racconti di cinque pentiti per la condanna del Capo dei capi. I pm Ingroia e Demontis avevano chiesto l’ergastolo “Presenteremo appello”

Palermo, la sentenza della corte d’Assise. L’ex Sisde Contrada accusato di falsa testimonianza. La figlia del giornalista: vergogna. Non sono bastati i racconti di cinque pentiti per la condanna del Capo dei capi. I pm Ingroia e Demontis avevano chiesto l’ergastolo “Presenteremo appello”

PALERMO – Dopo oltre 40 anni, l´omicidio del giornalista Mauro De Mauro è destinato a restare un mistero. L´unica certezza sono i depistaggi che avrebbero ostacolato l´indagine sin dall´inizio. Questo dice la sentenza della corte d´assise di Palermo, che dopo dieci ore di camera di consiglio ha assolto l´unico imputato, Totò Riina, ma ha disposto che tornino in Procura le deposizioni di alcuni testimoni chiave: quelle del superpoliziotto Bruno Contrada, innanzitutto, che sta scontando una condanna a dieci anni per concorso in associazione mafiosa. La corte ha visto la falsa testimonianza anche nelle deposizioni di due ex redattori di “Epoca”, Pietro Zullino e Paolo Pietroni, poi nelle parole dell´avvocato Giuseppe Lupis, ritenuto vicino ad ambienti dei servizi segreti.
Nel bunker di Pagliarelli, la figlia di De Mauro, Franca, quasi sussurra la delusione per l´assoluzione di Riina, seppur emessa con la vecchia formula dell´insufficienza di prove. Le sue parole sono pietre: «È una vergogna di 41 anni – dice – . Sono molto turbata». Quella sera del 1970, Franca De Mauro fu l´ultima a vedere suo padre, davanti casa, mentre si allontanava con alcune persone. Oggi dice: «Ho seguito la requisitoria, ritenevo che ci fossero le condizioni per arrivare a una conclusione diversa». Prima di andare via, assieme al suo legale di parte civile, Francesco Crescimanno, accusa: «E se i depistaggi su mio padre fossero dello Stato?».
Non sono bastati i racconti di cinque pentiti per la condanna all´ergastolo che chiedevano i pm Antonio Ingroia e Sergio Demontis. Erano racconti appresi da altri mafiosi che avrebbero avuto un ruolo nella sera del 16 settembre 1970. In quelle parole non faceva capolino solo la presenza di Riina, sostituto di Luciano Liggio nel triunvirato che reggeva Cosa nostra. C´erano anche due possibili moventi per la morte di De Mauro, per uno scoop in preparazione. Forse, il giornalista aveva scoperto qualcosa sulla morte del presidente dell´Eni Enrico Mattei, che il 27 ottobre 1962 fu ucciso dall´esplosione dell´aereo che lo stava riportando a Milano dopo una visita in Sicilia. Questo hanno ipotizzato i pentiti Mutolo, Buscetta e Grado. Oppure, De Mauro aveva scoperto che il principe Borghese stava preparando un colpo di Stato, per il dicembre 1970. Così sostiene un altro pentito, Di Carlo. In entrambi gli episodi, i boss avrebbero avuto un ruolo. E chi altri? Di certo, il giorno dopo il sequestro di De Mauro, scomparvero nove pagine dei suoi appunti, che erano in un cassetto, al giornale “L´Ora”.
Dice Ingroia: «Resto convinto che l´impianto probatorio fosse solido. Faremo appello. La sentenza ha confermato che i depistaggi hanno oscurato la verità». Nel corso della requisitoria, i pm l´avevano detto senza mezzi termini: «Sono stati depistaggi di esponenti della polizia, dei carabinieri e dei servizi». E adesso, dopo la trasmissione in Procura di alcune deposizioni, potrebbe anche arrivare un nuovo processo. Questa volta, su chi avrebbe impedito la ricerca della verità. Perché scomparvero anche delle bobine di intercettazioni telefoniche durante le indagini. Lì, c´era la voce dell´avvocato Vito Guarrasi, uno dei potenti di Palermo, sempre sfiorato dal sospetto di essere il trait-d´union fra la mafia e i poteri occulti d´Italia. Ma Guarrasi è morto nel 1999.
L´ultima amara verità emersa nel processo appena concluso dice che nel novembre 1970 arrivò a Palermo addirittura l´allora capo dei servizi segreti Vito Miceli per presiedere una riunione con i vertici della forze di polizia. «È arrivato l´ordine che le indagini vengano annacquate», confidò il commissario Boris Giuliano a un magistrato. E le indagini non andarono più avanti.

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