Messico, la marcia no-narcos

A Ciudad Juà rez Contro la guerra al narcotraffico. Da quando, tre mesi fa, gli hanno ucciso il figlio ventenne, trucidato a Cuernavaca insieme ad altri sei giovani, lo scrittore Javier Sicilia non si è dato pace. Ed è diventato lo sparo che provoca la valanga, un fiume straripante di adesioni a una campagna per la pace, un movimento cittadino che esprime il suo rifiuto alla testarda «guerra al narcotraffico» proclamata nel 2006 da Felipe Calderà³n e dal suo governo.

A Ciudad Juà rez Contro la guerra al narcotraffico. Da quando, tre mesi fa, gli hanno ucciso il figlio ventenne, trucidato a Cuernavaca insieme ad altri sei giovani, lo scrittore Javier Sicilia non si è dato pace. Ed è diventato lo sparo che provoca la valanga, un fiume straripante di adesioni a una campagna per la pace, un movimento cittadino che esprime il suo rifiuto alla testarda «guerra al narcotraffico» proclamata nel 2006 da Felipe Calderà³n e dal suo governo.

Nella percezione della società che la subisce, è una guerra che non solo non ha scalfito minimamente il potere militare, economico e ormai anche politico dei cartelli della droga, ma è riuscita solo a trasformare il paese in un campo di battaglia, a instaurare un’inarrestabile spirale di stragi e barbarie, a violare i diritti fondamentali della cittadinanza e a nevrotizzare l’intera società, producendo un bagno di sangue senza precedenti.
Dopo la marcia del silenzio, che un mese fa portò da Cuernavaca a Città del Messico una folla di manifestanti e fu imitata in molte altre città, la Caravana del consuelo, arrivata ieri a Ciudad Juárez dopo aver raccolto un elenco del dolore al suo passaggio, rappresenta un passo avanti, non solo quantitativo, del movimento per la pace, che ha firmato un Pacto ciudadano por la paz proprio in questa città, luogo geometrico delle violenze e delle ingiustizie che affliggono l’intero paese.
A Ciudad Juàrez
Ciudad Juárez, città di maquiladoras, piaga sulla frontiera con gli Usa, dove la manodopera costa dieci volte meno che dall’altra parte del fiume, il cui deserto circostante è tutto un cimitero clandestino, dove centinaia di giovani operaie spariscono per riapparire torturate e violentate, semisepolte sotto la sabbia. È da qui, da una brulla spianata in cui furono ritrovati i corpi di otto giovani donne sacrificate dal sadismo maschilista, che i partecipanti alla carovana, in un abbraccio simbolico con i cittadini di Ciudad Juárez, hanno lanciato un messaggio forte: se il primo punto del patto per la pace chiede giustizia per le vittime della violenza, l’ultimo punto esige una democrazia realmente partecipativa.
Ed è questo il nodo della questione: l’attuale governo del Pan, sempre più nervoso per la prossima, ineluttabile perdita della presidenza nel giugno 2012, persiste nel non voler ascoltare le voci che si alzano, forti e chiare, dalla società messicana: per il ritiro dell’esercito dalle strade, per la restaurazione dell’ordine pubblico con mezzi non militari ma di intervento nel sociale, con la creazione di posti di lavoro, di opportunità educative, sottraendo i giovani all’alternativa «emigranti o sicari». Con la sua guerra ostinata e perdente, che ormai vede scettici gli stessi Stati uniti che l’avevano raccomandata, Calderón rischia di trovarsi, alla fine del suo mandato, accusato di genocidio – per più di 40mila morti – di fronte a un tribunale internazionale.

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