«Entrai nel Pci grazie a una domestica ladra di mia zia Con Einaudi bisognava essere cortigiani e Bollati lo era»

Cà è una magnifica sorpresa nella letteratura italiana recente. Ha 86 anni e si chiama Lodovico Terzi, autore di Due anni senza gloria (Einaudi). Un gioiello, lo definisce Goffredo Fofi nella postfazione. Per Carlo Fruttero, un capolavoro. Gli anni sono il triennio 1943-1945 e Terzi racconta la sua (non) partecipazione alla guerra.

Cà è una magnifica sorpresa nella letteratura italiana recente. Ha 86 anni e si chiama Lodovico Terzi, autore di Due anni senza gloria (Einaudi). Un gioiello, lo definisce Goffredo Fofi nella postfazione. Per Carlo Fruttero, un capolavoro. Gli anni sono il triennio 1943-1945 e Terzi racconta la sua (non) partecipazione alla guerra.

Tutto cominciò proprio da Fruttero, autore di un racconto realistico, ma fantasioso, sul suo amico Lodovico. Al punto che Terzi si è trovato «costretto» a ricostruire come sono andate davvero le cose. «Volevo— dice Terzi— che i fatti parlassero da soli, ho fatto questo esercizio di stile per vedere cosa poteva venire fuori da un argomento che di solito è materia di apologia o di autocritica» . È la storia di un giovane di una famiglia della borghesia parmigiana, una famiglia vicina al regime pur essendo di tradizione liberale: dopo l’ 8 settembre, il ragazzo entra all’Accademia militare di Modena, per diventare sottotenente dell’esercito di Salò. Vorrebbe disertare per unirsi alla Resistenza ma rinuncia, assiste alla violenza delle milizie fasciste e alle vendette dei partigiani. In realtà, pur essendo intimamente antifascista, non si schiererà, restando sempre in quella che per Primo Levi fu la «zona grigia» . Un’autobiografia priva di retorica e di ipocrisie, che Lodovico Terzi, nella sua casa di Vigevano, ripercorre con voce pacata, seduto sul divano accanto a sua moglie Angela: «I partigiani hanno scelto, io no, appartenevo e basta, ho subìto una situazione e racconto i limiti entro cui sono stato disposto a subirla, fino al punto di andare a combattere gli angloamericani, non la guerra civile» . Non facile, però. Durante la perquisizione a una casa di contadini sospettati di nascondere delle armi, Terzi entrò in una camera da letto e si limitò a fumare una sigaretta senza mettere a soqquadro nulla. «Nel mantenere fermi i miei princìpi, sono stato aiutato dal fatto di appartenere all’esercito, che è molto protettivo e ti tiene al riparo dalle passioni» . Ne muoiono tanti, in casa Terzi. Muore per un’emorragia cerebrale il papà, il 23 luglio 1943, due giorni prima della caduta del Duce: era segretario nazionale degli ingegneri, un’alta carica del regime. Moriranno sua madre e sua sorella sotto le bombe alleate. Morirà anche, vittima di un assalto partigiano, lo zio Osvaldo Sebastiani, che era stato segretario particolare del Duce. Il giorno stesso in cui sarebbe morta, sua madre scrisse una lettera al figlio: «Sii sereno e agisci sempre come vorrebbe il Papà» . Per non sconvolgerla, Lodovico abbandona l’idea di darsi alla Resistenza e decide di arrivare alla fine della guerra dalla parte sbagliata. «Mamma era una donna dalle grandi passioni. Soprattutto era fedele alla memoria di mio padre, fu un grande amore» . Il sospetto è però che la fedeltà di mamma Terzi, che trattenne il giovane Lodovico, andò persino al di là degli ideali di suo marito: «Sono cose molto sottili: intanto, io per carattere non pretendo di aver sempre ragione. Ho la morale del soldato, che giusta o sbagliata sta dalla parte dell’esercito. Cedere a mia madre significava anche non avere un’alta considerazione di sé. Dire: se un nulla sta da una parte o dall’altra, è irrilevante, l’importante è che prevalga quella giusta» . Dopo sei mesi in un campo di concentramento, l’orfano ventenne Lodovico è prima a Massa, con il nonno, poi alla Normale di Pisa, dove incontra un ex compagno di collegio, Giulio Bollati, futuro direttore dell’Einaudi: «Giulio mi avviò al pensiero rivoluzionario ottocentesco e al marxismo, ma anche ai testi liberali di sinistra. Rimasi travolto dalla personalità straordinaria di Marx e dal grande affresco michelangiolesco della sua sociologia» . Nel clima esistenzialista di quegli anni, Terzi decide di interrompere l’università e di andare a lavorare come spaccalegna in Lunigiana: «Ma non mi presero, perché avevo le mani da signorino. Dunque andai come istitutore a Parma, nel mio vecchio collegio» . L’iscrizione al Partito comunista verrà con il soggiorno a Milano: «Mi avvicinai alla cellula di Porta Vittoria grazie alla domestica di mia zia, un’analfabeta che aveva anche il vizio di rubare. In casa del giovane avvocato Alberto Malagugini incontrai, tra gli altri, Lelio Basso e Giangiacomo Feltrinelli, un ragazzone esuberante e un po’ esibizionista» . Nel ’ 49 Terzi, con l’arrivo di Bollati all’Einaudi, si trasferisce a Torino. Si arrangia con lavori di redazione e di editing esterni: «Entrai nel giro. Da giovane ero vivace e spiritoso, e mi invitavano volentieri a pranzi e feste» . Di lì a poco Giulio Einaudi lo assume al commerciale. «Quando poi con la crisi mi trovai a dover tagliare delle teste di amici, chiesi che mi dessero una zona per vendere ai librai, ma non era il mio mestiere» . Giulio Einaudi? «Si portava dietro la leggenda del tipo capriccioso che metteva gli uni contro gli altri. Ha avuto molta pazienza con me, ma io ero troppo diffidente» . Il grande amico Bollati? «Con Einaudi bisognava essere grandi cortigiani e lui lo era: il grande cortigiano è un maestro di cinismo e se lo sei il potente ti viene dietro» . Italo Calvino fece il risvolto del suo primo romanzo, L’imperatore timido, 1963: «Sì, ma modificai un paragrafo che non mi piaceva» . Fruttero racconta che Terzi subì un processo all’Einaudi quando seppero che aveva aderito alla Repubblica di Salò: «Carlo ha fatto confusione: in realtà non subii nessun processo. Nel ’ 52 fui proposto nel direttivo di sezione come candidato, ma il giorno prima del congresso un compagno mi disse che si opponevano all’idea di eleggere un “ex repubblichino”… Tolsero il mio nome dalla lista dei candidati, ma al congresso salii sul palco e raccontai un pezzo della mia vita» . Lo scoglio fu superato nella commozione generale. La vera autocritica, Terzi la fa pensando a un altro episodio della sua lunga vita. Un giorno a Torino arriva una lettera del suo amico Alvaro, commilitone dei tempi di Modena: Alvaro se n’era andato tra i partigiani, mentre Terzi restò nell’esercito: «Mi lasciò il suo indirizzo perché voleva rivedermi, ma non risposi. Oggi non sarei in grado di spiegare perché. Era l’atmosfera della guerra fredda e temevo di trovarmi in tensione. Mi dissi: il passato è passato…» . Ancora comunista? «Non sono più militante dal ’ 56. Sul piano strettamente politico, oggi non ha senso definirsi comunista. Sul piano etico-politico sì, mi definirei comunista-liberale, cioè erede di due grandi culture e dei sentimenti che le hanno ispirate» . Patriota? «La mia patria è la lingua, comprensiva dei dialetti» . Poi venne l’epoca delle traduzioni, di cui Terzi è un maestro: Stevenson, Swift, Defoe, Dickens. «Nel dopoguerra andai al mare ai Ronchi ed ebbi un flirt con una ragazza inglese, Elisabeth. Quando partì, le promisi di raggiungerla a Wimbledon e nel frattempo per migliorare il mio inglese zoppicante, decisi di tradurre L’isola del tesoro, ma persi la traduzione e molti anni dopo, quando l’Adelphi me la richiese, dovetti rifarla» . Negli anni 80 arriva anche l’idea di fondare una casa editrice, la Gazza e Ceppo, un’insegna rubata al Circolo Pickwick: pagine scelte di grandi classici. Ora a Vigevano, Terzi legge e scrive. Vigevano è la città della sua seconda moglie, Angela: «La prima moglie mi ha lasciato in eredità un esercito di nipoti e io sono il patriarca della famiglia Sturani: per i miei ottant’anni ho invitato in un castello 50 nipoti, ne sono venuti 36» . Un giorno, Terzi ha fatto anche l’arbitro. Non su un campo da calcio, ma su un testo. Era un manoscritto di Fruttero e Lucentini: «Si parlava dell’inizio di un loro romanzo e mi dissero che scrivendo insieme non si schiodavano dalle loro posizioni: il primo preferiva una versione, il secondo un’altra. Decisero di farmi fare da arbitro. Lessi i due brani senza sapere chi fosse l’autore. Dissi la mia e la presero per buona» . Ma più che fare l’arbitro, a Terzi piace nuotare, e si racconta che un giorno salvò Fruttero dall’annegamento: «Non solo lui, anche Lucentini, che era rimasto intrappolato in una corrente vicino a riva. Io il mare della Versilia lo conosco come le mie tasche e certi pericoli li vedo al volo» .

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