Maria Elena Delia, tra i coordinatori della Freedom Flotilla, racconta l’attesa ad Atene
La situazione di stallo continua. Al sabotaggio della barca passeggeri greco/svedese si è purtroppo aggiunto quello compiuto ai danni dell’imbarcazione irlandese che si troverà nei prossimi giorni a dover affrontare, nel più breve tempo possibile, tutte le riparazioni necessarie per potersi riunire in tempo alle altre barche.
Maria Elena Delia, tra i coordinatori della Freedom Flotilla, racconta l’attesa ad Atene
La situazione di stallo continua. Al sabotaggio della barca passeggeri greco/svedese si è purtroppo aggiunto quello compiuto ai danni dell’imbarcazione irlandese che si troverà nei prossimi giorni a dover affrontare, nel più breve tempo possibile, tutte le riparazioni necessarie per potersi riunire in tempo alle altre barche.
E ai sabotaggi si affiancano le snervanti attese dei risultati delle ispezioni a cui alcune delle imbarcazioni sono state sottoposte, prima tra tutte la Audacity of Hope, la barca statunitense che da giorni è bloccata ad Atene in attesa di un feedback non ancora arrivato. I temerari passeggeri della US Boat to Gaza (temerari davvero se si pensa quanto fortemente abbiano voluto essere parte di questa Flotilla, nonostante l’indistruttibile cordone ombelicale che lega il loro governo allo stato di Israele) hanno deciso di invitare oggi pomeriggio tutti i media presenti ad Atene per ispezionare quanto più minuziosamente possibile la Audacity of Hope.
La barca statunitense, che porterà a bordo più di 3mila lettere di uomini e donne che da ogni parte degli Stati Uniti hanno deciso di scrivere i loro messaggi di solidarietà e vicinanza alla popolazione di Gaza, sarà completamente a disposizione di giornalisti e fotografi affinchè possano controllare ogni centimetro quadrato dell’imbarcazione, il carico e perfino il cibo e i medicinali presenti a bordo. Il capitano, l’equipaggio e i passeggeri saranno disponibili ad essere intervistati e a chiarire qualunque tipo di dubbio. “Il nostro viaggio avverrà nella più totale trasparenza e non abbiamo nulla da nascondere. L’unica cosa che desideriamo è partire e portare a Gaza le nostre lettere”, dichiara Gale Courey Toensing, uno dei passeggeri.
L’Audacity of Hope era stata ispezionata dalle autorità greche il 27 giugno, dopo che un’associazione israeliana aveva insinuato la presenza di alcune irregolarità amministrative. Ad oggi nessuno dei rappresentanti di US Boat to Gaza ha però ricevuto alcuna notifica nè copia (teoricamente dovuta) di un rapporto ufficiale. E se a questo già deprimente scenario aggiungiamo anche le dichiarazioni fatte da parte di alcuni funzionari israeliani convinti che a bordo dell’Audacity sarebbero stati nascosti grossi sacchi di zolfo pronti per essere rovesciati addosso ai soldati israeliani, non si può davvero evitare di sorridere amaramente. Conosco molte di queste persone, alcune molto bene, da mesi lavoriamo fianco a fianco.
E tra loro non posso fare a meno di pensare a Hedy Epstein, 88 anni, ebrea tedesca che di anni ne aveva otto quando Hitler salì al potere in Germania e la sua famiglia fu tragicamente coinvolta nel ben noto girone infernale delle persecuzioni. A quindici anni riuscì a fuggire in Inghilterra, i suoi genitori pienamente coscienti del fatto che quella separazione sarebbe stata per Hedy l’unica via di salvezza. Hedy da allora non rivide mai più nè suo padre nè sua madre, entrambi uccisi in campo di concentramento.
E’ una donna minutissima, che pare debba sgretolarsi al primo soffio di vento. Ha un sorriso disarmante e lo sguardo lucido e affilato. Una gentilezza d’altri tempi, incapace di sottrarsi a qualunque scambio, anche se reduce da dieci ore di volo e distrutta dal jet leg.
Era il 1982 quando Hedy, che aveva poi finito per trasferirsi negli Stati Uniti, restò impietrita di fronte alle notizie che raccontavano del massacro di Sabra e Chatila. Congelata. E furiosa. E decise che voleva capire. Capire perchè si stava ripetendo la Storia, una Storia che aveva segnato dolorosamente la sua esistenza e che si stava ripetendo per mano di coloro che da questa stessa Storia avrebbero dovuto invece aver imparato.
Dal 1982 Hedy ha voluto capire, ha capito e ha voluto spendersi in prima persona per sostenere il popolo palestinese.
Al 2003 risale il suo primo viaggio in Cisgiordania, dopo anni di conferenze e progetti concepiti e sostenuti a distanza. Me ne parla sempre con l’emozione con cui si racconta un battesimo, un momento di svolta esistenziale, mi racconta del suo disorientamento nel sentirsi accolta come una sorella, una figlia, una madre da tutti i palestinesi con cui entra in contatto durante quel suo primo viaggio. Mi dice: “Mi sentivo stretta dall’abbraccio di quel popolo, sentivo di essere a casa e che quella che teoricamente avrebbe dovuto essere la mia famiglia, il popolo israeliano, era lontano da me anni luce”. Perchè la famigla, Hedy, quella vera, è famiglia d’anima, la scegliamo e non sempre coincide con quella che le carte e i documenti vorrebbero assegnarci.
Dal 2003 continuerà a dedicarsi con sempre maggiore determinazione, instancabilmente, alla causa palestinese. E quando si imbatterà nel Free Gaza Movement e nel progetto di raggiungere la Striscia di Gaza via mare, navigando in acque internazionali per rompere l’assedio che dal 2006 le era stato imposto da Israele, Hedy deciderà di nuovo di voler capire. Capire Gaza e le motivazioni inaccettabili di una punizione collettiva imposta ignobilmente alla sua popolazione. Alla vigilia della partenza delle barche sulle quali avrebbe dovuto cercare di raggiungere la Striscia, Hedy viene aggredita mentre cammina verso casa.
E’ il 17 giugno del 2009 e, ferita, dovrà rinunciare ad unirsi al gruppo. Vittorio Arrigoni, che la conosceva bene, sconvolto per quanto accaduto, le scrive da Gaza, per sostenerla non solo con la sua solidarietà e affetto, ma con quelli di tutta la popolazione che la sommergono di mail e lettere. Quella lettera commossa di Vittorio si concludeva così: “Per tutti noi qui a Gaza sei un angelo caduto per sbaglio in questo orribile mondo“. Hedy ricorda, sorseggia lentamente un bicchiere d’acqua. Atene in questi giorni è asfissiante, caldissima. Indossa una t-shirt nera su cui risalta il bianco accecante di quello “Stay Human” che ricopre ogni maglietta e ogni cappellino dei 36 passeggeri della Audacity of Hope.
“Alla Gaza Freedom March Vittorio mi aveva detto, con quella sua risata da guascone, che se non fossimo riusciti ad entrare, mi ci avrebbe catapultata a Gaza. E io gli avevo risposto, ridendo, che forse per la catapulta non ero ancora pronta. Ma qui ed ora, lo sono. Il presidente Obama mi ha deluso infinitamente, tutte le sue promesse si sono rivelate solo parole. Queste nostre barche, questo nostro tentativo, questa straordinaria determinazione della società civile è la vera audacia della speranza. Ma se non ce la facessimo nemmeno questa volta…beh, questa volta sarò pronta per la catapulta.”
Penso a Hedy, provo a immaginarla lanciare sacchi di zolfo sui soldati israeliani e ringrazio, di cuore, certa grottesca propaganda che mi regala ultimamente risate incontenibili.
* tra i coordinatori della rappresentanza italiana nella Freedom Flotilla
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