La colonna sonora della città  che rinasce

MILANO I Bluebeaters, gli Stormy Six e gli occhi lucidi dei cinquantenni. L’ironia della Rete, tra D’Alessio e Red Ronnie

I «centri sociali»? Ci andavi e sembrava di essere a Londra o Berlino. Punto. Milano è (stata) anche questa

MILANO I Bluebeaters, gli Stormy Six e gli occhi lucidi dei cinquantenni. L’ironia della Rete, tra D’Alessio e Red Ronnie

I «centri sociali»? Ci andavi e sembrava di essere a Londra o Berlino. Punto. Milano è (stata) anche questa

 Pashmine arancio per le signore. T-shirt arancio per i ragazzi, parecchie magliette dell’Olanda col nome dell’interista Snejder. Cruyff, addirittura. Calcio totale. Nell’indimenticabile notte di lunedì, Milano è stata invasa da un lungo serpente di gente arrivata in Duomo fin dal pomeriggio con tutti i mezzi (ed è stato il momento più bello, nei piccoli cortei improvvisati con le biciclette scampanellanti, e sui tram strapieni gloriosamente arancioni). A tarda sera, via dal Duomo – bello, bollente e inospitale come sempre, dov’era un impresa trovare una bottiglietta d’acqua – ci si è persi verso i Navigli in formato festa Mundial.

Ho incontrato al bar il batterista dei Bluebeaters, la band che ha cantato l’inno non ufficiale di queste giornate, Tutta mia la città. Si chiama Ferdi, e aveva addosso una vecchia t-shirt arancio dei Casino Royale, «storica» band milanese anni ’90. Lui è un portabandiera quarantenne e con figli della generazione che negli anni ’90 aveva messo in piedi e frequentava i «centri sociali», evocati a sproposito come tante altre cose in questa campagna elettorale. Tu ci andavi e sembrava di essere a Londra o a Berlino. Punto. Milano è (stata) anche questa.
Parliamo del fatto che Tutta mia la città è davvero l’inno più strano che si sia mai sentito in una campagna elettorale. Le parole le ha scritte Maurizio Vandelli dell’Equipe 84, nel 1969, quando viveva a Milano e capitava che venisse a trovarlo a casa Jimi Hendrix, giusto per non dimenticare il livello culturale cittadino dell’epoca. E’ la storia di un tipo lasciato dalla fidanzata, lei se n’è andata con un altro. Il tipo gira senza meta, incazzato, solitario. E’ notte. «Tutta mia la città/ è un deserto che conosco», dice. Intanto: «Un automobile che passa/ qualcuno grida va a casa».
Concludiamo che in fondo è una canzone di grande amore per la città. E’ la città che rende possibile trasformare in affermazione questo grumo di rabbia, di orgoglio, lacrime. «Le luci bianche nella notte/ sembrano accese per me». Un sentimento talmente familiare nella notte di lunedì, che sembra stata scritta apposta. E’ stata una festa di scampato pericolo. Una festa gioiosa, incredula, rabbiosa per tutti questi anni perduti, sfregiati dalla volgarità, dal provincialismo, dalla paura. Dove eravamo finiti tutti?, il pensiero che leggi negli occhi di tanti.
C’è un’altra canzone di cui si deve parlare: Stalingrado degli Stormy Six, un altro gruppo nato nello straordinario crogiolo culturale della Milano post-’68. «La croce uncinata lo sa/ d’ora in poi troverà/ Stalingrado in ogni città». Si cantavano col sorriso sulle labbra già allora questi versi. Li impararono ben presto tutti a memoria. Mai dimenticati: gli Stormy Six spuntati da chissà dove ne hanno suonato una versione praticamente identica all’originale, appollaiati sul piccolo palco della grande festa al Duomo. E lì, negli occhi lucidi dei cinquanta-sessantenni per i quali quella canzone è un patrimonio di memoria dimenticato in un angolo come una vecchia foto ingiallita, si è capito che la storia del «ladro di furgoni», l’evocazione dell’«estremismo» è stata una tale stupidaggine da aver riportato al voto pure quella generazione, se si dà retta alle ricerche che vogliono Pisapia massicciamente votato dai 45-55 anni.
Ogni generazione ha la sua storia, la sua canzone, e l’ha portata in piazza del Duomo l’altra sera. Le mille storie dimenticate dalla Milano brutta, arcigna, livida di questi anni. Se parte lo sberleffo spontaneo per il vicesindaco De Corato, che i centri sociali li ha odiati e sgomberati proprio come missione, prima di passare a occuparsi dei Rom, non c’è niente da stupirsi. L’ossessione provinciale che per 18 anni ha sfregiato la faccia e l’anima di una grande possibile metropoli europea vede in lui uno dei massimi ideologi. De Corato disoccupato. Lo urlavano i tram che andavano verso piazza Duomo. Decorato disoccupato rispondevano altre bande di ragazzi in piazza.
Qualcuno lanciava pure l’altro grido di guerra di queste giornate: Gi-gi dales-sio! Non si finirà mai di sottolineare il privilegio avuto a Milano, durante tutta questa campagna elettorale, nel vedere irrompere per le strade e nei rituali della politica, lo spirito e l’ironia di facebook e twitter. Prima l’«effetto Pisapia», la lunga paradossale e teoria di malefatte compiute dal candidato estremista (letto su una t-shirt: «Pisapia ha ucciso i due liocorni»), inventate e vergate su facebook. Poi il clamoroso e innocuo «attacco» al sito di Red Ronnie e quello del povero Gigi D’Alessio con la stessa tecnica. Infine l’invenzione di Sucate, la città immaginaria della Grande Moschea, che ha ridicolizzato la comunicazione web della Moratti. Tutte cose che lasceranno certamente il segno nella politica futura.
Lo dicono in tanti. Il punto di svolta della campagna elettorale milanese è stata la maldestra e goffa freccia lanciata da Letizia Moratti in tv contro Pisapia, la storia del «ladro di furgoni». E’ stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso nella folle campagna della destra, da Zingaropoli alla Moschea. Il segno del passaggio dalla insultante e pavloviana telepolitica sulla quale questi brutti anni si sono pure fondati, alla forza e allo stile della Rete. Intanto in piazza, mentre Nichi Vendola urlava di voler abbracciare «fratelli e sorelle Rom, fratelli e sorelle musulmani», i ragazzi si godevano in pace la loro Spinellopoli, perché «alla fine della fiera» come si dice qui, la tolleranza e l’intelligenza non se ne erano mai andate via da questa città. Si erano soltanto nascoste in attesa di tempi migliori.

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