La buccia delle mele

Intervista a Haà¯m Vidal Séphiha

L’odissea di un giovane ebreo belga, di famiglia sefardita turca, nellàEuropa delle deportazioni e “l’assurdo” di Auschwitz; la voglia di vivere e la diffidenza per i ricordi che demoralizzano; le difficoltà , dopo la liberazione, per ritrovarsi e l’indifferenza delle autorità  turche; la questione del ladino. Intervista a Haà¯m Vidal Séphiha.

Intervista a Haà¯m Vidal Séphiha

L’odissea di un giovane ebreo belga, di famiglia sefardita turca, nellàEuropa delle deportazioni e “l’assurdo” di Auschwitz; la voglia di vivere e la diffidenza per i ricordi che demoralizzano; le difficoltà , dopo la liberazione, per ritrovarsi e l’indifferenza delle autorità  turche; la questione del ladino. Intervista a Haà¯m Vidal Séphiha.
Haïm Vidal Séphiha è linguista e professore universitario. È stato tra i primi a creare una cattedra universitaria per il giudeo-spagnolo, nel 1984. Ha pubblicato diverse opere, tra cui L’Agonie des Judéo-Espagnols, ed. Entente (1977), Le ladino (judéo-espagnol calque): structure et évolution d’une langue liturgique, ed. Vidas Largas, (1982), Sépharades d’hier et d’aujourd’hui (con Richard Ayoun), ed. Liana Levi (1992). È stato deportato ad Auschwitz nel marzo del 1943. È padre di Dominique Vidal, ex direttore di Le Monde Diplomatique. 

Lei è nato a Bruxelles…
Sono nato a Bruxelles da una famiglia di ebrei sefarditi originari di Istanbul. La famiglia, dal lato di mio padre, era originaria della Sicilia spagnola, che espulse gli ebrei tra il 1495 e il 1497. Il nostro nome, “Sephiha”, che in italiano si pronunciava “Sefika”, in arabo significa “saldatore”. Più tardi scoprii che nella mia famiglia paterna questo era, in effetti, il mestiere che si tramandava di padre in figlio. L’ultima volta che sono andato a Istanbul, nel quartiere di mio padre una donna mi chiese -in giudeo-spagnolo- chi fossi. Risposi: “Sephiha”, e lei disse: “Saldatore”. 
“Haïm” significa “vita”…
Alcuni mi hanno detto che sono sopravvissuto proprio perché mi chiamo Haïm. Io rispondo: “Se sapeste il numero di Haïm che sono morti, non direste così”. 
Comunque sì, per tornare alla sua domanda, sono cresciuto a Bruxelles. A casa parlavamo giudeo-spagnolo e francese. Mio padre parlava un francese meraviglioso. A scuola usavamo il francese, ma anche il fiammingo, per quanto non lo parlassi bene come il francese. Al liceo poi imparai l’inglese e il tedesco. E poi l’ebraico in sinagoga. E l’italiano durante i corsi serali: “Il bambino piccolo dorme e sogna nel lettino”… cose così. 
Avevo un professore francese e fascista, che però amava gli ebrei. Mi adorava e aveva proposto a mio padre, che gli riparava i tappeti, di nascondermi durante la guerra. Mio padre rifiutò: pensava che avesse, diciamo, dei sentimenti esagerati verso i giovanotti. Chi lo sa, forse se avesse accettato non sarei stato deportato…
Comunque, nel 1941, presi il mio diploma. Nel frattempo, a 15 anni, avevo acquisito la nazionalità belga -prima avevo la turca- così con l’entrata delle truppe tedesche fui evacuato nel sud della Francia assieme agli altri belgi. Rientrato, mi iscrissi in un’istituto per diventare agronomo e proseguii gli studi, fino a quando non venni espulso assieme a tutti gli studenti ebrei. Ho ancora il documento di espulsione. Eravamo sotto occupazione e bisognava portare la stella. 
A quel punto scoprii che avevano aperto una scuola di orticoltura a 25 chilometri a sud di Bruxelles; era diretta da Haroun Tazieff, un famoso vulcanologo ebreo, morto qualche anno fa. Lì imparai a lavorare la terra. A un certo momento, però, pativo talmente il freddo che decisi di tornare a Bruxelles. All’epoca, l’università era stata chiusa e i professori avevano messo in piedi dei corsi clandestini sotto forma di conferenze pubbliche: li seguivo tutti, mi mettevo la stella per uscire di casa e la toglievo all’interno. Seguivo filosofia, embriologia, chimica. Era entusiasmante! 
Il primo marzo 1943, al ritorno da uno di questi corsi, fui arrestato dalla Gestapo. Stavo scendendo dal tram e non portavo la stella. Ero a trenta metri da casa mia. C’era un ebreo della Gestapo, lo chiamavamo “le gros Jacques”. Io negai di essere ebreo, avevo il passaporto belga. Mi tolsero i pantaloni e poi mi presero in giro in yiddish. Mi portarono prima al commissariato della Gestapo e, da lì, al campo di raccolta di Malines. 
Nei Paesi occidentali c’erano i campi di raccolta, mentre nei Paesi orientali, dove c’erano molti quartieri ebraici, li si rinchiudeva nei ghetti. La politica era quella di separare gli ebrei: a Drancy in Francia, a Malines in Belgio… A Malines rimasi a lungo perché, essendo nato turco da genitori turchi, bisognava capire se potevo godere di protezione. All’epoca la mia fidanzata, che non era ebrea, andò da Bruxelles a Parigi, all’ambasciata turca, per chiedere aiuto. I turchi però rifiutarono. Alla fine mi venne assegnato un numero come ebreo belga. All’inizio sembrava che gli ebrei belgi non potessero essere deportati. In effetti a Malines vidi liberare molti ebrei. Ci speravo anch’io. In realtà era una strategia delle SS: dividerci per governare meglio. Tant’è che alla fine ci fu una retata generale e gli ebrei belgi finirono tutti a Malines, anche quelli liberati. 
Nel settembre del 1943 lei è partito con il primo convoglio di ebrei belgi con destinazione Auschwitz. 
Sì. E qui arriva l’eterna questione: sapevamo dove stavamo andando? No. E posso provarlo. Nel campo di Malines c’erano degli ebrei anche tra il personale del campo: avevano una “zona speciale”, non dormivano a terra sulla paglia, ma in letti con lenzuola e tutto quanto. Tra questi vi era una ragazza, che un giorno mi disse: “Vidal, sono innamorata di te. Se accetti il mio amore farò in modo che tu possa restare”. E io, da vero imbecille, dissi no. Avevo una fidanzata e, nella mia totale ingenuità, rifiutai. Del resto, giusto tre settimane prima mia madre e la mia fidanzata erano venute a trovarmi al campo. Avevano ottenuto un’autorizzazione. All’epoca mia madre non portava ancora la stella perché era turca. Era una protezione, anche se durò poco. Questo per dire che, se veramente avessi saputo, avrei accettato, pur di salvarmi la vita. 
Fui quindi deportato. Auschwitz-Birkenau era un mondo che non si può definire infernale. Era assurdo, kafkiano. Non sapevamo dove eravamo finiti. Sentivamo delle esplosioni, l’abbaiare dei cani. All’arrivo ci fecero scendere dal treno rapidamente, ci picchiarono, e infine ci divisero: donne, bambini e vecchi da un lato, gli uomini dall’altro. Alle donne, bambini e vecchi hanno mentito dicendo che li portavano alle docce: “Prendete i camion se siete stanchi”. La solita strategia della menzogna delle SS. 
Io finii nel gruppo degli uomini validi, anche se la selezione ancora non era definitiva. Ci fecero poi passare davanti a un medico, che molto gentilmente ci chiedeva: “Lei è stato malato?”. Io, forte dei miei vent’anni risposi: “Mai”. 
Accanto a me c’erano due uomini, entrambi sulla quarantina, che conoscevo perché erano stati soci di mio padre nel business dei tappeti. I due avevano fatto il servizio militare in Belgio, mentre io ero troppo giovane, per cui non conoscevo certi meccanismi. Ecco, evidentemente pensarono che la malattia significasse, come nel caso del servizio militare, l’esonero, così risposero di essere malati. Finirono immediatamente alle camere a gas. 
Racconto sempre questa vicenda quando vado nelle scuole per sottolineare come siamo tutti un po’ frutto del nostro passato; ognuno ha il suo vissuto e la vita è un insieme di vissuti. Per questo “Haïm” è plurale in ebraico, perché la vita sono le tante vite di qualcuno. 
La prima notte, visto che eravamo arrivati tardi, fummo spogliati e messi in una grande sala lastricata, dove faceva molto freddo. Eravamo a fine settembre, inizio ottobre. Tutti, nella sala, si stringevano l’uno all’altro per scaldarsi. Ricordo ancora la reazione che ebbi nei confronti di un ragazzo che si lamentava: “Moriremo tutti, che ci succederà?”. Lo conoscevo bene: era un ragazzone più grande di me, andava già all’università, si chiamava Jacques. Mi avvicinai e lo schiaffeggiai. “Non demoralizzarci!” gli intimai. Bisognava proteggersi dagli altri. 
Poi ci “docciarono” e ci rasarono… Noi ci guardavamo l’un l’altro e a un certo punto ci venne da ridere. C’era anche dell’umorismo, per quanto nero. 
Il passaggio successivo fu farsi tatuare il numero. L’addetto aveva già una lista pronta e con una punta e dell’inchiostro a uno a uno fummo tatuati. Dopodiché ci distribuirono scarpe e vestiti che non erano della nostra taglia. 
Infine fummo mandati in un blocco dove il capo -non so se fosse tedesco- ci spiegò la situazione: “Non siamo in un sanatorio, la vita qui è dura. Chi non ce la fa viene eliminato…”. Discorsi molto incoraggianti, insomma. 
Racconti della zuppa…
Eravamo affamati ovviamente. La prima zuppa che ci servirono, che era pure molto buona -ma questo lo seppi solo in seguito- aveva dentro delle patate, che però non erano state sbucciate. Non avevo voglia di mangiarla e i “vecchi” deportati la accettarono con piacere e gratitudine. Ho a lungo desiderato quella zuppa che regalai. 
Ci obbligarono poi a cucire anche sugli abiti il numero che avevamo sul braccio. 
Solo che non ci avevano dato ago e filo: dovevamo procurarci l’occorrente dagli altri deportati in cambio di porzioni di pane. 
La morale del campo era “organizzarsi”. Si usava anche il termine “rubare” che però aveva una connotazione diversa, negativa: “rubare” era veramente rubare a un altro deportato, mentre “organizzarsi” voleva dire, ad esempio, sottrarre un pezzo di pane a un carretto che passava. In questo caso si rubava alla comunità intera, ma non a un compagno.
Per qualche giorno il mio compito fu prendere delle pietre da un mucchio e trasportarle a trecento-quattrocento metri. Una volta terminato, dovevo riportarle dove le avevo prese. Un lavoro inutile, frustrante, che per di più ti distruggeva i piedi, perché indossavamo scarpe che non erano del nostro numero. Ricordo che avevo calli e vesciche ovunque, che si infettavano. Era un inizio di eliminazione fisica. 
Fui poi assegnato a un commando per un piccolo campo vicino, collegato a una miniera di carbone. Feci il minatore per circa sedici mesi. Per un periodo lavorai anche nel cantiere, e lì incontrai un lavoratore francese, un civile. Gli comunicai l’indirizzo della mia fidanzata in Belgio e gli consegnai una lettera, che lui trascrisse. Molto tempo dopo, mentre ero nella miniera, arrivò un tipo del cantiere, che mi aveva cercato ovunque, che mi portò una cartolina di Michy. E io, come un idiota, iniziai a urlare: “Ho delle notizie dal Belgio!”. 
Paul Halter, un uomo del Partito Comunista, che conosceva la politica, e che oggi è presidente della Fondazione Auschwitz a Bruxelles, mi affrontò: “Vidal, ma sei pazzo? Ti rendi conto del numero di persone che hai messo in pericolo? Tu per primo, la persona che l’ha portata e quella che l’ha consegnata. Distruggi subito quella cartolina!”. Aveva ragione. Avevo commesso un errore, inconsciamente. Non avevo alcuna coscienza politica a quel tempo, tranne quello che avevo imparato in un gruppo sionista. 
Quello trascorso in quel campo a fare il minatore fu il periodo peggiore. Restai fino al 18 gennaio 1945, quando arrivò l’ordine di evacuare il campo. 
All’epoca avevo ripreso le forze grazie a zuppe supplementari, pane… ma senza mai rubare ad altri. Avevo imparato a “organizzarmi”. 
Con l’evacuazione del campo, per i sopravvissuti iniziò la cosiddetta “marcia della morte”. Può raccontarci?
Partii con gli altri. Era inverno e c’era la neve fino al ginocchio… Camminavamo ininterrottamente anche perché se uno si fermava per fare pipì c’era subito un SS pronto a spararti in testa. Non ci si poteva nemmeno riallacciare i pantaloni. Se non volevi morire, te la facevi addosso. Camminavamo sulle impronte degli altri, passando in mezzo ai morti di freddo o di stenti e ai fucilati. Dopo tre giorni, dopo una sosta in un fienile, ci fecero entrare in un vagone aperto. A quel punto cominciavano quelli che io chiamo “i treni della morte”. Nel mio vagone so che eravamo centosessantuno perché ci contarono. Io fui il centosessantunesimo a salire, l’ultimo. Ciascuno ricevette un po’ di pane e una salsiccia molto salata. 
Avevamo appena lo spazio per stare in piedi, ci dissero di metterci uno sopra l’altro. 
Infine il treno si mise in moto. Non sapevo come fare per stare a galla in quella marea di uomini. Di lì a poco alcuni sono morti soffocati e si è fatto un po’ di spazio. 
Ricordo che mangiai subito il mio pane: era la cosa migliore per non farselo rubare. Quando avevamo sete, grazie a un bastone con attaccato una specie di cucchiaio, recuperavamo della neve lungo la ferrovia. Si combatteva per un po’ di neve, per un pezzo di pane. I morti aumentavano. I cadaveri venivano accatastati o lanciati fuori dal vagone. A un certo punto il mio vagone si divise tra coloro che possedevano qualcosa e chi no. Io ero tra quelli che non ne avevano. Parlo del pane. Erano riusciti a metterne da parte prima di lasciare il campo: appartenevano all’aristocrazia concentrazionaria e avevano dei contatti nelle cucine. Per loro noi eravamo dei nemici. A quel punto, per sopravvivere, mi sono impossessato delle coperte dei morti, insanguinate o sporche che fossero. Loro non ne avevano più bisogno. Per calmare la sete ho bevuto la mia urina. Probabilmente è stato questo a salvarmi.
Eravamo intorno al 28 gennaio, la data del mio compleanno. Mi ripetevo: “Vidal, non morirai il giorno del tuo ventiduesimo compleanno!”. 
Il treno si fermò un paio di volte davanti ad altri campi, ma non c’era posto per far salire altri detenuti. Passammo anche davanti a Buchenwald. Lì c’erano mio padre e mio fratello, ma io non lo sapevo. 
Arrivammo infine al campo di Dora, un campo enorme, in Turingia, dove si fabbricavano i V1 e V2, i missili usati per bombardare Londra. 
Chi non faceva parte di alcun commando venne radunato in una sala che chiamavamo il “Kino” perché le SS volevano farci un cinema. D’altronde già avevano i bordelli, perché non anche un cinema? 
In quella sala vidi tantissima gente, anche dei soldati italiani, disertori ancora in uniforme, alsaziani. Si dormiva a terra. Per avere una razione di cibo di più, lasciavamo i morti al nostro fianco per poter usare il loro numero. Alla fine venni impiegato in un commando di spazzini nel campo delle SS. Il campo Dora fu evacuato verso la fine di marzo. Ci trasferirono allora a Bergen Belsen dove c’erano delle caserme. È laggiù che fui liberato dagli inglesi. 
Cos’è successo dopo la Liberazione?
Quando arrivarono gli inglesi la popolazione concentrazionaria fu divisa per nazioni. Così mi trovai sul camion con dei belgi che tornavano a casa. I miei compagni di viaggio cercavano di appropriarsi delle cose di valore che riuscivano a portar via lungo la strada del ritorno. Io cercavo dei libri. La mia frustrazione più grande era stata infatti l’espulsione dalla scuola. Il conducente del mio camion era inglese e mi chiese: “Could you take a watch for me?” (Mi prenderesti un orologio? Ndr). Quando scesi, a una delle tappe, vidi una donna tedesca con un bambino in braccio. In tedesco dissi: “Non abbia paura”. Mi feci dare l’orologio e lo portai all’autista. A me non interessava. 
Arrivai finalmente in Belgio e lì mi scontrai con le prime incomprensioni da parte della popolazione. Fui mandato in un campo di raccolta. C’erano le lenzuola bianche, le prime che vedevo dal ’43. Mi diedero anche una banconota belga per poter prendere un treno. Arrivato a Bruxelles volevo prendere il mio solito tram per andare a casa. Ma il conducente si oppose: senza soldi non potevo salire. Ero ancora vestito da “deportato”, con i capelli rasati. Mi impuntai: “Non scenderò!”. Questo per farle capire il livello di incomprensione che c’era. 
Nessuno voleva aiutarmi, tranne una ragazza che mi conosceva e che mi chiese: “Sei tu Vidal?”. Mi pagò il biglietto e mi portò a casa sua dove mi offrì una zuppa. Poi mi accompagnò al quartiere Saint Gilles. Non trovai nessuno. Non ricordo come seppi che uno zio abitava lì vicino. Andai da lui.
Cos’era successo al resto della sua famiglia?
Io fui deportato ad Auschwitz nel settembre del 1943. A partire dall’ottobre dello stesso anno anche gli ebrei turchi iniziarono ad essere deportati. Tra questi mia madre, mio padre e le mie sorelle. C’è una foto di Ravensbrück che ritrae mia madre e mia sorella. L’ho trovata, per caso, in un libro intitolato “Resistence”, in tre volumi, curato dalla Association nationale des anciennes déportées et internées de la Résistance. Purtroppo devo dire che il Governo turco non intervenne per proteggere i suoi cittadini ebrei. Le donne turche furono portate a Ravensbrück, un campo di concentramento, non di sterminio, gli uomini finirono a Buchenwald. 
Quando tornai a casa, mio padre era già morto. Con mio zio avevamo creduto che fosse stato liberato. In realtà era morto di tifo: con lui c’era anche mio fratello Jacques, anche lui ammalato. Mio fratello guarì, ma mio padre non sopravvisse. Fu un deportato belga, un prete, a dirlo a mio fratello: “Tuo padre è morto. Ho recitato io il kaddish in sua memoria”. In seguito vennero rinvenuti i suoi resti.
Mio fratello Jacques, che ora è morto, era stato mandato in un sanatorio svizzero. Lo rividi a Bruxelles nel luglio del 1945. Fu allora che seppi della morte di mio padre. 
Mia madre e le mie sorelle furono liberate grazie a un accordo tra Germania e Turchia (i tedeschi di Turchia in cambio delle donne turche di Ravensbrück) stipulato all’indomani dell’entrata in guerra della Turchia contro la Germania, il 20 febbraio 1945. Una volta liberate, il 28 febbraio, furono inviate in Danimarca e da lì, in battello, in Svezia. Dalla Svezia, sempre in battello, finirono in una “residenza forzata” in Turchia. Quando lo venni a sapere, mi recai, con i miei trentotto chili, all’ambasciata turca in Belgio a chiedere perché stessero trattenendo mia madre, le mie zie, le mie sorelle e le mie cugine. Mi risposero: “Lei non ha voce in capitolo qui, è in territorio turco! Lei è un disertore!”. “Disertore? I disertori siete voi, voi avete disertato i vostri doveri umani!”. Mi risposero che se continuavo mi avrebbero incarcerato. 
Ho sempre avuto paura di andare in Turchia dopo questo episodio, anche se poi ci sono tornato. Non sopporto che ora, per entrare in Europa, dicano che hanno fatto di tutto per salvare gli ebrei turchi. Non è vero. 
Alla fine dovetti far intervenire il direttore della Croce Rossa internazionale, che si chiamava Picaloza, e che era stato un cliente di mio padre. 
Ero rientrato a Bruxelles verso il 28 aprile, ma fu solo in inverno che potei riabbracciare mia madre e le mie sorelle. Le vidi arrivare alla Gare du Midi, a Bruxelles, il 6 dicembre, il giorno di San Nicola. 
Ci spiega la storia delle mele?
Quando mia moglie mi ha conosciuto non si capacitava di come mangiassi le mele. Quando mangio una mela io prima la sbuccio, la mangio e, infine, ne mangio anche le bucce. Sono reazioni da ex-deportato. Al campo eravamo perennemente affamati e mangiavamo qualunque cosa. Nella miniera il nostro compito era caricare il carbone. Con delle grandi pale gettavamo il carbone su un tappeto che scendeva poi a riempire i vagoni. Eravamo diretti da un operaio polacco. Noi dovevamo lavorare anche quando lui si fermava. Quando faceva pausa si metteva su una sedia, mangiava il suo panino e poi una mela. Quando mangiava la mela la sbucciava e faceva cadere le bucce a terra. Il suolo era bagnato, c’era del fango. Ricordo che una volta volevo prendere le bucce ma lui, con gli stivali, le schiacciò nel fango. Dopodiché si alzò e se ne andò. Bene, io presi le bucce e le misi in tasca, al campo le lavai e poi me le mangiai! 
A proposito della miniera, mi è venuto in mente un altro episodio. Le parlavo di questi tappeti meccanici per trasportare il carbone… erano fatti di grosse lastre in metallo. Un giorno, una mi è caduta addosso e mi sono fatto un taglio, molto profondo sul dito, che ha subito iniziato a sanguinare. A quel punto mi sono ricordato di come curavo le piante che si spezzavano quando le avevo sul balcone: ci mettevo sopra un po’ di terra e poi le avvolgevo in un pezzo di carta. Si riprendevano. Allora ho preso un pezzo di stoffa, l’ho messo intorno al dito con un po’ di neve sporca… Per fortuna, prima di partire, i miei genitori mi avevano inviato al campo i primi antibiotici. Ho avuto qualche giorno di riposo. Il dottore, che conoscevo bene -era un ebreo di Bordeaux- mi ha curato. Era l’unico sguardo umano del campo. Aveva una tale dolcezza negli occhi… si chiamava Lubitch. Di lui ho un altro ricordo legato al periodo del lavoro sul cantiere. Quando si arrivava il mattino bisognava spingere i vagoni. Le dita restavano incollate al metallo gelato e la pelle si strappava. A un certo punto mi venne un attacco di pleurite. Andai da lui, che mi disse: “Tre giorni, non posso fare di più”. Da lì a tre giorni, infatti, ci sarebbe stata una selezione. Mi disse: “Tu resti nel mio ambulatorio”. Sa cosa fece? Allestì un bagno di luce con delle lampadine. Mi salvò la vita. 
Lubitch, tra l’altro, aveva vissuto una cosa straordinaria. Durante la marcia della morte, a un certo punto, come dicevo, ci eravamo fermati in un fienile. Eravamo sulla paglia e c’era della neve. A un certo punto si sentì qualcuno gridare: “C’è un dottore?”. Solo diversi anni dopo Lubicht mi raccontò di essere stato chiamato a curare il fattore, molto malato, e che mentre era al suo capezzale, la moglie gli serviva delle omelette al prosciutto. 
Riprendere la vita in Belgio non è stato facile.
È stato un shock. La mia fidanzata si stava per sposare. Pensava fossi morto. Così è la vita… 
Poi ci furono le difficoltà legate alle incomprensioni, anche dei parenti. Mio zio voleva che andassi subito a lavorare. Io invece volevo studiare. Me ne andai. Un amico del liceo, con il quale andavo in piscina, e che nel frattempo aveva fatto degli studi di chimica, mi propose: “Vieni a studiare chimica”. Così feci. Ero anche diventato capo di laboratorio a Rouen. 
Ma poi mia madre si ammalò e prima di morire soffrì una lunga agonia. Per assisterla lasciavo spesso Rouen per andare a Bruxelles. Queste assenze erano motivo di litigi con il mio direttore, che mi spinsero a lasciare quel lavoro. 
Nel frattempo mi ero sposato e per un periodo lavorai nella stamperia dei miei suoceri. Ero anche bravo. La morte di mia madre però mi portò a rompere con tutto.
Ripresi gli studi alla Sorbona. Pensa che all’inizio non volevano lasciarmi iscrivere perché non riconoscevano il mio diploma. Era circa il 1951. Andai al Ministero dell’Istruzione e, alla fine, con fatica, mi riconobbero il diploma, a condizione di non prendere una laurea in medicina o in farmacia. Mi iscrissi al corso di laurea di Spagnolo.
Passai un anno in un albergo accanto dell’Istituto di studi ispanici di Parigi, divorziato dalla mia prima moglie, che non aveva accettato che avessi lasciato la stamperia. 
Trascorsi quell’anno a studiare letteratura spagnola e a leggere il Don Chisciotte in lingua originale al Parco del Lussemburgo. Ritrovai tutto l’entusiasmo che avevo quando studiavo a Bruxelles. Mi mantenevo grazie a qualche risparmio messo da parte ai tempi della stamperia; ottenni anche una borsa di studio come ex-deportato. Poi il direttore del dipartimento di studi ispanici, che era belga e mi conosceva molto bene, mi propose di fare dei corsi serali di spagnolo. 
Nel 1968, nel bel mezzo degli eventi, mi arrivò il decreto di nazionalizzazione francese, favorito dal fatto che avevo sposato Inge, la mia attuale moglie. L’anno prima avevo cominciato un corso di giudeo-spagnolo alla Facoltà di Lingue Orientali; nel 1968, essendo diventato francese, ebbi la possibilità di insegnare alla Sorbona. Fui poi nominato professore di linguistica ispanica a Paris 8. Ottenni una cattedra di giudeo-spagnolo, la prima di Francia. Nella mia idea sarebbe dovuta confluire alla Sorbona Nouvelle, ma finì a Lingue Orientali. 
Molti pensano che lo giudeo-spagnolo e il cosiddetto ladino (che non va confuso con il ladino dolomitico) siano la stessa lingua. Al centro dei miei studi c’è stato sempre l’impegno a riservare il nome “ladino” solo alla lingua letteraria usata per tradurre la Bibbia dall’ebraico in spagnolo. 
Quello che io sostengo è che il ladino, come lingua parlata, non esiste, è una lingua esclusivamente scritta. Oggi molti studiosi sono d’accordo con me. Purtroppo, quando sono andato in pensione, la cattedra è sparita. 
Ancora oggi lei partecipa a incontri e conferenze per parlare della sua esperienza…
Ho iniziato a raccontare di Auschwitz ai miei studenti alla Sorbona. Nel 1963 mi hanno chiamato come professore di spagnolo. Gli studenti non sapevano cosa fosse Auschwitz: un giorno scrissi quella parola sulla lavagna del mio corso di spagnolo. Qualche settimana dopo Levinas, che era il professore del corso, mi convocò per vietarmi di parlare di Auschwitz ai suoi studenti. “I suoi studenti? -gli risposi- I suoi studenti sono i miei allievi ed è normale che io ne parli. Si vergogni lei, che è lituano, dove tutti i suoi parenti sono stati schiacciati e assassinati dai nazisti”. Gli dissi di licenziarmi, aggiungendo però che se lo avesse fatto avrei reso nota la ragione per cui mi mandava via. Restai. 
Credo sia importante raccontare quello che è successo, soprattutto ai bambini, che da un certo punto di vista sono molto più acuti degli adulti. Una volta in una classe chiesi: “Perché pensate che mettano la stella ai bambini ebrei?”. “Per distinguerli dagli altri”, mi rispose un ragazzino. Che significa che i bambini ebrei non sono distinguibili dagli altri. La trovai una cosa di un’intelligenza incredibile. 
Cerco anche di spiegare certe dinamiche. Per esempio, in un campo di sterminio, quelli che iniziano a parlare dei piatti che cucinava loro la madre, o dei piatti che amano… sono a rischio. Laggiù non bisogna lasciarsi toccare dai rimpianti, bisogna guardare avanti, vivere con speranza. Se non c’è la speranza è finita. Uno dei miei amici, che ora è morto, ha scritto nelle sue memorie che “il più ottimista tra di noi era Vidal”. Anche laggiù io dicevo che la vita valeva la pena di essere vissuta. 
Ci sono tanti modi di rimanere “attaccati” alla vita. Io recitavo una parodia di un salmo di Baudelaire, De profundis clamavi. Ancora oggi mi sbaglio sempre nello stesso punto. Si parla della notte, ma io mi confondo con l’oblio. E l’oblio era proprio dove mi sentivo io, nel fondo della miniera. Ho letto che Primo Levi recitava dei versi di Dante, e che li reinterpretava secondo il suo vissuto nel campo. 
Ancora oggi ricordo l’ultima bastonata che ho ricevuto. Quante volte rivedo la scena… Arrivavo dal campo delle SS di Dora, dove avevo trovato delle patate intere nell’immondizia. Non sapevo dove metterle. Le volevo mangiare, ovviamente. Le misi allora nel contenitore dove stava la zuppa per il nostro commando. Rientrati al campo, le SS controllarono cosa c’era nel contenitore e trovarono le patate. Fui immediatamente denunciato e portato dal comandante del campo. Mi disse: “Ora riceverei settantacinque colpi sul fondoschiena. E li conterai”. Ne presi prima cinquanta, senza emettere un solo grido o una lacrima. Non so come feci. Poi, quando stava per ricominciare, fu interrotto da qualcuno che entrava… Finito di parlare il capo mi chiese quanti colpi avessi ricevuto: “Cinquanta”, risposi. “Stai mentendo”, mi disse. E ricominciò. 
Quel giorno ricevetti centoventicinque colpi. Avevo il fondoschiena che sanguinava. Arrivai all’appello sulla piazza e fui picchiato anche dal capo blocco, perché ero in ritardo. Non so come riuscii a passare la notte.
Lei dice che a tenerla in vita è stato anche un altro fatto…
Lo voglio raccontare anche se mi suscita un pudore profondo. Quando sono stato deportato, con la mia fidanzata del periodo, Michy, non era ancora successo nulla. Ero ancora vergine. Ecco, non potevo morire senza aver conosciuto l’amore. 
(a cura di Francesca Barca)

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