Interno sovietico con nonna ossessiva

Un incontro con il russo Pavel Sanaev. In «Seppellitemi dietro il battiscopa» lo straniamento di un bambino tra comicità  e dolore

Un incontro con il russo Pavel Sanaev. In «Seppellitemi dietro il battiscopa» lo straniamento di un bambino tra comicità  e dolore

Porta un titolo curioso, Seppellitemi dietro il battiscopa, quello che è stato qualche anno fa un caso editoriale in Russia ed è stato proposto ora in Italia da nottetempo, nella bella traduzione di Valentina Parisi (pp. 281, euro 17). Mescolando comicità e tragedia, l’autore, il quarantenne Pavel Sanaev (stasera a Roma con lo statunitense Gary Shteyngart sul palco del festival di Massenzio), ha attinto alle proprie esperienze di bambino per mettere in scena lo straniamento e il dolore del piccolo Sasa, in balia di una nonna disperatamente nevrotica.
La storia editoriale di questo libro è lunga: è stato infatti scritto alla metà degli anni Novanta ed è uscito per la prima volta sulla rivista «Oktjabr» nel 1996. Anche se il successo è stato immediato (già nel ’97 è stato segnalato per il Booker Prize russo), il romanzo è stato pubblicato in volume solo nel 2003, diventando rapidamente un bestseller, con oltre quindici edizioni al suo attivo e più di mezzo milione di copie vendute. A distanza di quasi vent’anni, le è mai venuta voglia di rimetterci mano?
Proprio no. Tra il 1996 e oggi ci sono stati dei cambiamenti di vario tipo in Russia, ma nulla a che vedere con la trasformazione radicale che è avvenuta nel nostro paese tra il 1989 e il ’93. È come se in quegli anni ci fossimo trovati a passare da un mondo a un altro mondo, e dal punto di vista letterario il mio libro appartiene già a questo «dopo». D’altra parte, la storia che racconto è ambientata tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, un periodo che si è già cristallizzato nella memoria e sul quale il mio sguardo non è cambiato. Del resto, ho la prova di quello che dico, perché di recente, dopo che il libro era già diventato un bestseller, la mia casa editrice ha deciso di mettere in vendita una nuova edizione illustrata, per la quale ho scritto – o meglio, riscritto – tre capitoli che erano rimasti fuori dalla prima edizione. Ed è stato molto facile, queste nuove pagine si sono integrate benissimo fra le altre.
Sebbene molti critici, in Russia e all’estero, abbiano sottolineato gli aspetti umoristici del libro, non pensa che si potrebbe parlare di un dramma in forma di commedia?
Sono completamente d’accordo. In realtà, quando ho scritto il libro, non mi sono posto il problema in questo modo, ma già allora sapevo quali erano gli autori che per me rappresentavano un modello. Da un lato il Jerome K. Jerome di Tre uomini in barca, e soprattutto Jaroslav Hasek, di cui avevo letto Il buon soldato Sc’vèik per la prima volta quando avevo dodici anni – già allora mi aveva colpito enormemente ed è poi diventato uno dei miei libri preferiti, credo che un lettore attento possa riconoscere in Seppellitemi dietro il battiscopa i miei tentativi di riprodurre quel gusto per il paradosso, addirittura la costruzione delle frasi di Hasek; dall’altro lato a influenzarmi è stato Dostoevskij in particolare Povera gente e più ancora Umiliati e offesi – leggendo il monologo di Nelly quando è sul punto di morire, mi sono detto che così avrei voluto scrivere, con quella passione e quella forza. Così, dovendo definire molto rozzamente il mio libro, potrei dire che la prima metà è sotto il segno di Hasek e la seconda porta l’impronta di Dostoevskij.
Al tempo stesso, il suo romanzo è pienamente calato nella società sovietica degli anni Settanta. Sarebbe difficile immaginare una storia come quella di Sasa e di sua nonna Nina Antonovna, ambientata in un altro luogo, in un altro tempo.
Non saprei, ho visto nonne simili anche altrove: negli Stati Uniti, per esempio. Al tempo stesso, la base di questa storia è autobiografica, le vicende di Sasa sono state le mie, e quindi è evidente che l’ambiente che ho descritto nel libro è quello che conosco meglio, in cui sono vissuto quando ero piccolo. Ma la cosa che conta di più ai miei occhi è quello che ho fatto di queste vicende nel momento in cui le ho scritte, come le ho tradotte sulla carta.
L’io narrante del libro, Sasa, è un bambino di otto o nove anni. Ha trovato difficile riprodurre la sua voce?
No, quando ho cominciato a scrivere quello che poi sarebbe diventato questo libro, andavo ancora a scuola, e l’intonazione del protagonista è venuta da sé, insieme alla prima idea della storia. Molto più difficile è stato, successivamente, trovare la tenacia e la determinazione per rimanere seduto a tavolino, giorno dopo giorno, fino a quando il libro non ha assunto la sua forma definitiva. Ora, invece, sono al lavoro su un nuovo libro, e questa volta è decisamente meno immediato far suonare «giusta» la voce del mio eroe, un giovanotto indolente e pieno di belle speranze, che si trova travolto dal crollo dell’Unione Sovietica e che poi si rivede a vent’anni di distanza. Quello che posso dire, è che ancora una volta impasto l’umorismo con il dolore, perché questa è la mia cifra, ed è anche quello che i lettori si aspettano da me. Non potrei cambiare, sarebbe come se un gruppo heavy metal a un certo punto sfornasse un disco pop: non c’è niente di male nel pop, ma i fan sarebbero frastornati.
Uno dei tratti più evidenti del suo libro è che nella costruzione di tutti i personaggi, anche i più sgradevoli, la nonna in primo luogo, lei lentamente porta alla luce i fatti che li hanno portati ad agire in quel modo.
Ma è la vita ad avere queste sfumature: i cattivi al cento per cento esistono soltanto nei film di Hollywood. Per quanto riguarda la nonna, come tantissime persone russe della sua generazione, ha dovuto fare i conti nel corso della vita con grandi tragedie, che hanno segnato in modo indelebile il suo carattere.
Alla durezza e alle ossessioni della nonna lei contrappone la dolcezza della madre di Sasa, che a un certo punto il bambino – senza neanche capire bene cosa vuol dire – definisce come una «dissidente».
Il fatto è che per affrontare le mille difficoltà che l’esistenza ci riserva, tutti noi tendiamo ad affidarci a delle regole, ed è quello che fa Nina Antonovna, soffocando il nipote con una serie infinita di imposizioni, che altro non sono che lo specchio delle sue paure. Mentre la madre nel suo rapporto con il figlio si affida all’amore: sa che arrampicarsi su un albero può essere pericoloso, ma non impedisce al figlio di farlo, gli offre il suo sostegno. In questo senso, sì, è una dissidente – e non mi riferisco solo al periodo sovietico.

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