Carceri, una vergogna italiana

Si può e si deve voltare pagina. Sovraffollamento di oltre un terzo, detenuti rinchiusi per quasi 20 ore al giorno in celle dove ci si siede a turno. Che fare? In un libro Vincenzo Ruggiero analizza il problema e propone soluzioni
L’abolizionismo. Le domande sono quelle di sempre: chi punire, perché punire, come punire. L’abolizionismo propone una prospettiva altra rispetto al “pensiero unico” repressivo

Si può e si deve voltare pagina. Sovraffollamento di oltre un terzo, detenuti rinchiusi per quasi 20 ore al giorno in celle dove ci si siede a turno. Che fare? In un libro Vincenzo Ruggiero analizza il problema e propone soluzioni
L’abolizionismo. Le domande sono quelle di sempre: chi punire, perché punire, come punire. L’abolizionismo propone una prospettiva altra rispetto al “pensiero unico” repressivo

Il carcere è in crescita esponenziale. In venti anni le presenze sono più che raddoppiate: erano 25.804 il 31 dicembre 1990 e 67.961 alla stessa data del 2010 (il che corrisponde a circa 90.000 ingressi nell’anno). La capienza regolamentare dei nostri istituti è di 41.500 e, dunque, il sovraffollamento è di oltre un terzo. In molte carceri i detenuti stanno chiusi per oltre 20 ore in celle di tre metri per tre nelle quali occorre stare in piedi o seduti a turno. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per il trattamento riservato a un detenuto costretto a vivere in uno spazio «inferiore alla superficie minima stimata auspicabile dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura». Alcuni magistrati di sorveglianza hanno (vanamente) ordinato alla amministrazione di rimuovere analoghe situazioni in diversi istituti. È di pochi giorni fa il ventiseiesimo suicidio del 2011 in un carcere della Repubblica (dopo il triste primato raggiunto l’anno precedente).
La situazione è intollerabile e va riconosciuto a Pannella il merito di averla brutalmente imposta alla attenzione mentre i più, a cominciare dal ministro della giustizia, fingono di non vedere o promettono piani inverosimili e controproducenti di nuove carceri. Si ritorna a parlare di amnistia o di indulto. Soluzione alla lunga inevitabile anche se tutti (o quasi) si stracciano le vesti al solo sentirne parlare e se è evidente che si tratta di palliativi perché, senza cambiamenti nelle politiche penali e penitenziarie, nel giro di pochi mesi si sarebbe daccapo.
Se si vuole davvero voltar pagina occorre guardare in faccia la realtà e dire, senza ipocrisie, che la crescita della carcerazione (e il conseguente sovraffollamento degli istituti) non dipende dall’aumento della criminalità. Secondo le rilevazioni del Ministero dell’Interno e dell’ Istat, infatti, la curva dei reati è stazionaria o addirittura in calo (con picchi verso l’alto solo nel 1991 e nel 1996). Ciò significa che le ragioni del boom della penalità e del carcere stanno altrove: nel passaggio dallo Stato sociale allo Stato penale, caratteristica della fase non solo in Italia ma, da oltre un decennio, in tutte – o quasi – le democrazie occidentali, sull’onda del pensiero unico che, a partire dagli Stati Uniti, ha ridisegnato i sistemi istituzionali, i rapporti sociali, il concetto stesso di cittadinanza. Il postulato di questo pensiero unico è che la garanzia dei diritti e della sicurezza degli inclusi passa necessariamente attraverso l’isolamento e l’espulsione da quei diritti degli esclusi, cioè dei non meritevoli e dei marginali (i “nuovi barbari” da cui la società contemporanea deve difendersi con ogni mezzo). In questa visione, la sicurezza, la prosperità, la felicità si identificano con un ordine prestabilto e immodificabile, a cui corrisponde la necessità di respingere al di fuori o, se ciò non è possibile, di rinchiudere, il disordine e chi lo esprime (migranti, tossicodipendenti, poveri: cioè le categorie di soggetti che riempiono gli istituti di pena).
Per modificare questo trend occorrono interventi coerenti anche nello specifico (oltre che in termini di politiche generali). Su due piani, in particolare. Anzitutto è necessario che i giudici “facciano i giudici” evitando di abusare della custodia cautelare e di comminare pene esemplari per venire incontro alle diffuse richieste sociali. Perché – per usare le parole di Alessandro Manzoni nella Storia della colonna infame – per i giudici cedere al «timore di mancare a un’aspettativa generale (…)non è una scusa, ma una colpa». Ma, poi, occorre cominciare – tutti – a cambiare cultura e a interrogarsi sugli esiti della “illusione repressiva”, anche perché, paradossalmente, all’aumento del carcere si accompagna ovunque la crescita del senso di insicurezza dei cittadini dimostrato, tra l’altro, dal boom degli acquisti di armi per difesa personale. In questo contesto ripensare la natura, la funzione e la filosofia della pena non è una fuga in avanti ma un necessario esercizio di realismo. In questa riflessione molti utili stimoli e suggestioni vengono da un recente, interessante libro di Vincenzo Ruggiero (Il delitto, la legge, la pena. La contro-idea abolizionista, Edizioni Gruppo Abele, 2011, euro 16) che esamina criticamente le idee che stanno alla base dei sistemi penali moderni. Le domande sono quelle di sempre: chi punire? perché punire? come punire? L’approccio è quello “abolizionista” dove per abolizionismo si intende non tanto un programma compiuto di interventi quanto «un approccio, una prospettiva, una metodologia, uno specifico angolo di osservazione» alternativi al pensiero unico repressivo e finalizzati alla individuazione di “qualcosa di meglio” dell’attuale sistema penale. Vale la pena rifletterci.

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