Bergson liberato dall’etichetta di spiritualista

Un saggio di Rocco Ronchi smonta gli stereotipi che hanno condizionato la fama del filosofo francese. Il dio bergsoniano è quello della biologia e della mistica non quello interprete della religione statica Né spiritualista nemico della scienza, né accanito cultore dell’intuizione contro la fatica del concetto

Un saggio di Rocco Ronchi smonta gli stereotipi che hanno condizionato la fama del filosofo francese. Il dio bergsoniano è quello della biologia e della mistica non quello interprete della religione statica Né spiritualista nemico della scienza, né accanito cultore dell’intuizione contro la fatica del concetto

Un cono rovesciato si innalza da un piano e via via si allarga a indicare le fasi successive di un processo: il vertice rappresenta lo slancio originario, l’uno da cui si irradia l’energia inventiva che scorrendo ovunque batte il tempo come durata, nella coscienza, nel vivente o nell’evoluzione creatrice. A questa immagine, lo «schema dinamico», torna spesso l’Henri Bergson di Rocco Ronchi, «sintesi» preziosa il cui primo merito è quello di smantellare gli stereotipi che vedono nel filosofo francese uno spiritualista nemico della scienza, un cultore dell’intuizione contro la fatica del concetto. In realtà l’anti-positivismo di Bergson sorgeva dal riconoscere che proprio la scienza era infedele ai fatti, come attesta la riduzione del tempo, fluire continuo e indiviso, allo spazio con cui lo misuriamo sui quadranti dell’orologio.
Toccò a Gilles Deleuze nel Bergsonismo (1966, tradotto da Feltrinelli nell’83) indicare in Bergson un interprete del pensiero matematico di Riemann: il tempo come durata è molteplicità di fusione, virtuale e continua, irriducibile al numero e internamente differenziata. Molteplicità e differenza erano nozioni centrali nella filosofia francese di allora, basterebbe pensare all’idea di «rizoma», molteplicità acentrata in costante sviluppo. La generazione di Sartre e Merleau-Ponty – osserva Ronchi – volgendo le spalle a Bergson trova nella fenomenologia il sentiero per «tornare alle cose stesse», come voleva il motto, per tanti versi irrealizzato, di Husserl. Ma per Bergson è attingendo alla fonte dell’esperienza che la filosofia valuta le acquisizioni delle scienze, dalla psicologia alla biologia e alla fisica relativistica. È tempo di rinunciare anche all’etichetta di spiritualismo: quel che caratterizza l’esprit in Bergson è l’essere una forza che restituisce più di quanto riceve, che consente all’io di «trarre da sé più di quanto non abbia», di proiettarsi verso un futuro che resterà sempre aperto. L’esprit è lo slancio grazie al quale la vita cresce differenziandosi, sospendendo così la seconda legge della termodinamica, «la più metafisica delle leggi della fisica», quella che impone alla materia la sorte inesorabile della degradazione. In vista dell’azione dell’homo faber sul mondo, il linguaggio trasforma il continuo del divenire nel discreto della scrittura alfabetica e l’intelletto lo arresta scomponendolo in oggetti solidi. Al contrario, l’intuizione a cui si affida la metafisica bergsoniana non fa che proseguire lo slancio da cui è animato il vivente: l’intuizione si radica nella vita, ne riflette la mobilità portandola all’autocoscienza. Scardinando il dualismo che separa con nettezza spirito e materia (dualismo che ancora si ritrova nell’Essai dell’89, nel contrasto fra spazio e durata), già Materia e memoria delineava in effetti una «metafisica materialistica», apparente paradosso colto, tra l’altro, dal bergsoniano Carlo Emilio Gadda. Il punto da cui si innalza il cono dal piano costituisce «l’atto della percezione pura», il luogo d’inserzione dello spirito nella materia.
La percezione è in origine materiale, non possiede quel carattere coscienziale che gli attribuisce l’intenzionalità della fenomenologia; già la pianta riconosce il terriccio che la nutre, l’acido cloridrico riconosce il carbonato di calcio. Qui percepire è agire, assumere un abito immediato di reazione sempre identica; lo spirito compare quando c’è esitazione nella risposta motrice, incertezza sul da farsi, perplessità che consente l’apparizione del nuovo, temporalità creatrice. La materia è già percezione allo stadio virtuale. Se al fondo della coscienza come soggettività c’è la persistenza di un mondo di cui il soggetto incarnato è piega, come vorrà Merleau-Ponty contro Sartre, allora la coscienza, prima di essere nel mondo, è essere del mondo. Non è a un’anima spettatrice che l’ente si svela, ma a un corpo incarnato e in situazione: l’esserci è proprio di ogni vivente e non del solo uomo, come voleva Heidegger: non esiste l’abisso sartriano fra l’essere per sé della coscienza e l’essere in sé della cosa.
All’origine della realtà occorre pensare l’uno come atto, il mouvant (non il mobile, o il movente, come in genere si è tradotto, ma l’in corso): lo slancio che origina la vita è atto in atto, energia del divenire, tendenza che si sviluppa a raggiera e produce le linee divergenti dell’evoluzione creatrice. Elevando il cambiamento stesso ad assoluto, non riducendolo al predicato di una sostanza, Bergson dà soluzione alla difficoltà fondamentale della filosofia e della teologia: spiegare come l’uno possa comunicarsi ai molti, l’idea esprimersi negli oggetti singolari, il divino manifestarsi negli enti, pur restando trascendente.
Nel momento in cui tracciò alla lavagna un segmento per spiegare ai suoi allievi i celebri paradossi di Zenone, Bergson si rese conto che la figura è preziosa per ciò che in essa è assente: del cambiamento il tracciato raffigura l’essenza, cioè – suggerisce l’etimo greco – «quel che era l’essere»; ma manca l’atto del passare, c’è il divenuto ma non il presente dello star passando, espresso dal gesto della mano. È dalla confusione tra l’atto, sempre in via di formazione, e il fatto compiuto, che sorge la nostra metafisica; lo conferma Cartesio che trasforma il cogito, l’atto di pensiero, in «io sono una cosa che pensa», cioè nell’accidente di una sostanza. Ma per Bergson il verum non è il factum, come voleva Vico, ma il fieri, e si dice solo al participio presente, non al passato: è questa la differenza in atto che Derrida chiamerà différance (non différence), volendo suggerire appunto il differire della differenza, non il suo prodotto.
L’atto costitutivo ha la natura della soglia. Si apparenta ad altri luoghi – l’istante del morire, la cornice che isola la raffigurazione, il punto cieco dello sguardo in cui il mondo si rende visibile – di cui Rocco Ronchi si era occupato nel Pensiero bastardo (Marinotti, 2001). È la stessa natura del «mistico» presente nel Tractatus di Wittgenstein, l’evento stesso del mondo. E, in effetti, suggerisce Bergson, lo slancio originario è «forse di Dio, se non Dio stesso». Ma non si tratta del Dio dell’onto-teologia, l’assoluto in cui tutto è già presente e compiuto; in tal caso il tempo non avrebbe nulla da fare, se non eseguire un programma, e l’effetto non ci darebbe alcun novum rispetto alla causa che lo genera.
La metafisica bergsoniana della durata creatrice rovescia lo spinozismo naturale dell’intelligenza, quello che suppone «da qualche parte» una sostanza divina e la pienezza dell’origine. L’assoluto di Bergson è invece atto che sta sempre avendo luogo, è presente mai dato da nessuna parte (e su questo, rileva Ronchi, forte è la prossimità con il pensiero di Giovanni Gentile). La sua realtà è nei molti in cui transita, evento che eccede sempre le sue concrete effettuazioni, moneta d’oro di cui non si finirà mai di dare il resto. Il dio bergsoniano è quello della biologia e della mistica: non quello della religione statica che si affida alla superstizione per proteggere l’uomo dai dolori del vivere, ma il dio della religione dinamica da cui può sorgere una collettività fondata sull’amore, in cui appare la divinità di ogni uomo.

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