Anonymous oltre la Rete

Il sito dell’Autorità  delle comunicazioni attaccato dagli hacker che protestano contro le sue proposte su Internet, ritenute ostili alla pratica della condivisione e alla libertà  di informazione

Il sito dell’Autorità  delle comunicazioni attaccato dagli hacker che protestano contro le sue proposte su Internet, ritenute ostili alla pratica della condivisione e alla libertà  di informazione

Il primo segnale di un attacco al sito Internet dell’Agcom è arrivato nel primo pomeriggio di ieri. Lo ha rivendicato il gruppo Anonymous, che indica nell’Authority italiana uno strumento nelle mani di chi, oltre alla carta stampata, vuol mettere il bavaglio anche alla Rete. Per spiegare i motivi dell’attacco occorre rimettere le lancette degli orologi indietro, cioè quando l’agenzia italiana di controllo sulle comunicazioni ha emesso un comunicato stringato e ultimativo rispetto alla lotta contro la violazione delle leggi sul copyright. Da qui a qualche settimana, si leggeva nel comunicato, l’Agcom individuerà e chiudere tutti i siti italiani che diffondono materiale audio e video protetto da diritto d’autore. Il riferimento è ai popolari siti Internet dove è possibile scambiare video, pezzi musicali, ma soprattutto dove è possibile vedere, secondo la tecnologia streaming, film più o meno recenti. Come spesso accade in queste occasioni, l’Agcom dovrà vedersela con la protesta dentro e fuori la Rete organizzata da gruppi di mediattivisti che ritengono la crociata dell’Agcom lesiva di alcuni diritti fondamentali, come l’accesso al sapere e alla cultura. Nel tam-tam della Rete qualche malizioso, invita a mettere in rapporto i muscoli sfoderati dall’Agcom con i progetti annunciati dai maggiori gruppi televisivi, con Mediaset in pole position, di servizi a pagamento di streaming video, tecnica che prevede che il materiale video possa essere visto sia da un computer collegandosi a un sito senza necessariamente scaricarlo che da un televisore opportunamente dotato di uno specifico programma.
Le conseguenze immediate di questo giudizio sulla subalternità dell’Agcom agli interessi delle major italiane dell’intrattenimento stanno nel fatto che le norme della proprietà intellettuale devono svolgere un doppio ruolo. In primo luogo regolamentare i comportamenti individuali, decidendo d’imperio il confine tra legalità e illegalità, ma anche di definire il contesto sociale e normativo affinché si possa sviluppare un nuovo settore merceologico, meglio un nuova modalità per vendere cultura e conoscenza.
Non è la prima volta che l’Agcom si erge a paladina della proprietà intellettuale, in nome di uno status quo che vede una concentrazione oligopolistica e asimmetrica nelle percentuali a favore del gruppo Mediaset sia nelle televisioni «in chiaro» che della raccolta della pubblicità. Ma questa volta la politicità della presa di posizione di questa authority è dovuta al fatto che l’Agcom non guarda tanto dell’esistente. Il suo obiettivo è di intervenire preventivamente affinché il mantra neoliberista diventi la regola dominante in quel panorama ancora indefinito e a tratti nebuloso, ma indicato come una promettente terra promessa per gli affari emersa dopo l’avvenuta convergenza tecnologica tra Rete, telefonia cellulare e televisione.
Che servono regole per quanto riguarda la vita in Rete è cosa ovvia, dato che la consuetudine alla condivisione in Rete è stata messa spesso alla berlina in nome del business e dei rapporti di forza esistenti al di fuori della Rete. E se il rispetto delle leggi esistenti sul copyright è invocato in nome della tesi che il sapere, nella sua forma di film o brano musicale, deve essere vincolato alla proprietà intellettuale perché la conoscenza è una merce eguale alle altre, in Rete invece tanto la conoscenza che le informazioni sono considerate un bene comune. Il nodo da sciogliere, allora, è definire le regole che possono bloccare l’enclosures del sapere in un processo che si rinnova continuamente come è l’accumulazione originaria del capitale.
L’Agcom non ha però dubbi: vanno difese le imprese perché proprietarie di quella conoscenza. Una posizione, quella dell’Italia, in piena sintonia con le conclusioni del G8 dedicato alla Rete che si è svolto recentemente a Parigi. In quella sede, i «potenti» della Terra hanno affermato che la proprietà privata è un bene assoluto e che è tempo di chiudere l’era in cui la Rete era un contesto dove il diritto consuetudinario ha finora regolato l’accesso a ciò che era ritenuto un bene comune, come ha brillantemente sostenuto da Daniel Bensaid in Spossessati, saggio scritto dallo studioso francese pochi mesi prima la sua morte.
Le conclusione del G8 sulla Rete sono state accolte, ma questo era scontato, da una pioggia di critiche da parte di studiosi, mediattivisti. Quello che emerge con forza in Rete, e che costituisce un fatto imprevisto, è il rinnovato protagonismo di alcuni hacker raccolti nella sigla Anonymous, gruppo che avevano già fatto parlare di sé a partire dalla compagna di solidarietà a Wikileaks e a sostegno di uno dei suoi fondatori, Julian Assange.
Anonymous, come scrivono Cassel Bryan-Low e Siobhan Gorman in un testo pubblicato nella lista di discussione «nettime», non è però un gruppo organizzato, bensì un’idea della libertà in Rete che chiunque può sottoscrivere. Le azioni intraprese sono certo decise attraverso un meccanismo di discussione non pubblico, ma poi i singoli possono organizzarle come meglio credono. Altro elemento interessante di questa ripresa dell’attitudine hacker è che Anonymous ha compiuto la scelta di uscire dalla Rete per mettere in relazioni le loro azioni con i movimenti sociali che hanno occupato la scena in Europa e Stati Uniti negli ultimi due anni. Il loro marchio è la maschera indossata dal protagonista del film «V come vendetta» diretto da James McTeigue e che rappresenta un rivoltoso inglese del Seicento, Guy Fawkes ed è apparsa durante le mobilitazioni antiausterità in Inghilterra lo scorso inverno, in Italia durante la rivolta degli studenti e dei ricercatori precari sempre lo scorso inverno e più recentemente ha fatto la sua comparsa durante gli accampamenti degli indignados spagnoli. Infine, la frase che meglio racchiude l’attitudine politica di Anonymous è quella che recita così: «I popoli non dovrebbero aver paura dei propri governi: sono i governi che dovrebbero aver paura dei popoli».
Ed è proprio questa alterità rispetto l’operato dei governi che ha portato il gruppo non solo a compiere azioni in solidarietà di Wilileaks, ma anche a colpire siti di alcune imprese e i governativi inglesi, spagnoli, tedeschi, francesi e statunitensi. L’Italia sembrava al riparo da tutto ciò, fino a quando un video e un comunicato scritto in inglese e italiano ha segnalato che anche il governo italiano era sotto osservazione, perché poco attento nel garantire la libertà di espressione e informazione e perché troppo subalterno alle imprese della comunicazione e dell’intrattenimento. Così, negli ultimi dieci giorni sono stati colpiti siti del governo, del «Popolo delle libertà», di Mediaset, delle ferrovie dello Stato, solo per citarne alcuni. Gli attacchi, come sempre, sono dei Ddos, cioè tentativi reiterati di collegamento ai siti che provocano una «saturazione» di richieste di connessione che provocano il «collasso» del sito. Con un tempismo sconosciuto al personaggio, il presidente del Senato Renato Schifani ha subito parlato di attacco terroristico alla democrazia. Evidentemente per l’attuale maggioranza di governo, la manifestazione del dissenso deve essere relegata nell’empireo posticcio dei talk show per non disturbare l’ordine costituito. Anonymous evidenza però il fatto che ormai il confine tra i conflitti dentro la Rete e al di fuori dello schermo sta diventando sempre più evanescente, consentendo di articolare diversamente tanto la produzione dell’opinione pubblica che le strategie di sottrazione dalle tecnologie del controllo sociale.
È questo il filo rosso che è stato ripreso dai gruppi hacker e che ha la sua genealogia nei gruppi di mediattivisti che nella metà degli anni Novanta del Novecento usarono la tecnica del netstrike per stabilire un link tra i movimenti sociali di allora e il mediattivismo. Operazione che si interruppe non perché non funzionò, ma perché ormai la Rete stava imboccando decisamente la strada dei social network, fattore che metteva in discussione le modalità di azione del mediattivismo. Finita la stagione delle mailing list e dei siti alternativi e antagonisti, l’attitudine hacker ha dovuto fare i conti con la realtà delle «nuvole di dati» spacciate, secondo la definizione di Manuel Castells, come esito di una autocomunicazione di massa altera alla logica delle imprese. La scelta di stabilire affinità elettive con i movimenti sociali non è quindi un episodio legato a una contingenza, bensì la definizione di una strategia che non stabilisce più nessuna distinzione tra coloro che indossano la maschera di Guy Fawkes e coloro che invece fanno «movimento per il movimento».
bvecchi@ilmanifesto.it
Benedetto Vecchi
Il primo segnale di un attacco al sito Internet dell’Agcom è arrivato nel primo pomeriggio di ieri. Lo ha rivendicato il gruppo Anonymous, che indica nell’Authority italiana uno strumento nelle mani di chi, oltre alla carta stampata, vuol mettere il bavaglio anche alla Rete. Per spiegare i motivi dell’attacco occorre rimettere le lancette degli orologi indietro, cioè quando l’agenzia italiana di controllo sulle comunicazioni ha emesso un comunicato stringato e ultimativo rispetto alla lotta contro la violazione delle leggi sul copyright. Da qui a qualche settimana, si leggeva nel comunicato, l’Agcom individuerà e chiudere tutti i siti italiani che diffondono materiale audio e video protetto da diritto d’autore. Il riferimento è ai popolari siti Internet dove è possibile scambiare video, pezzi musicali, ma soprattutto dove è possibile vedere, secondo la tecnologia streaming, film più o meno recenti. Come spesso accade in queste occasioni, l’Agcom dovrà vedersela con la protesta dentro e fuori la Rete organizzata da gruppi di mediattivisti che ritengono la crociata dell’Agcom lesiva di alcuni diritti fondamentali, come l’accesso al sapere e alla cultura. Nel tam-tam della Rete qualche malizioso, invita a mettere in rapporto i muscoli sfoderati dall’Agcom con i progetti annunciati dai maggiori gruppi televisivi, con Mediaset in pole position, di servizi a pagamento di streaming video, tecnica che prevede che il materiale video possa essere visto sia da un computer collegandosi a un sito senza necessariamente scaricarlo che da un televisore opportunamente dotato di uno specifico programma.
Le conseguenze immediate di questo giudizio sulla subalternità dell’Agcom agli interessi delle major italiane dell’intrattenimento stanno nel fatto che le norme della proprietà intellettuale devono svolgere un doppio ruolo. In primo luogo regolamentare i comportamenti individuali, decidendo d’imperio il confine tra legalità e illegalità, ma anche di definire il contesto sociale e normativo affinché si possa sviluppare un nuovo settore merceologico, meglio un nuova modalità per vendere cultura e conoscenza.
Non è la prima volta che l’Agcom si erge a paladina della proprietà intellettuale, in nome di uno status quo che vede una concentrazione oligopolistica e asimmetrica nelle percentuali a favore del gruppo Mediaset sia nelle televisioni «in chiaro» che della raccolta della pubblicità. Ma questa volta la politicità della presa di posizione di questa authority è dovuta al fatto che l’Agcom non guarda tanto dell’esistente. Il suo obiettivo è di intervenire preventivamente affinché il mantra neoliberista diventi la regola dominante in quel panorama ancora indefinito e a tratti nebuloso, ma indicato come una promettente terra promessa per gli affari emersa dopo l’avvenuta convergenza tecnologica tra Rete, telefonia cellulare e televisione.
Che servono regole per quanto riguarda la vita in Rete è cosa ovvia, dato che la consuetudine alla condivisione in Rete è stata messa spesso alla berlina in nome del business e dei rapporti di forza esistenti al di fuori della Rete. E se il rispetto delle leggi esistenti sul copyright è invocato in nome della tesi che il sapere, nella sua forma di film o brano musicale, deve essere vincolato alla proprietà intellettuale perché la conoscenza è una merce eguale alle altre, in Rete invece tanto la conoscenza che le informazioni sono considerate un bene comune. Il nodo da sciogliere, allora, è definire le regole che possono bloccare l’enclosures del sapere in un processo che si rinnova continuamente come è l’accumulazione originaria del capitale.
L’Agcom non ha però dubbi: vanno difese le imprese perché proprietarie di quella conoscenza. Una posizione, quella dell’Italia, in piena sintonia con le conclusioni del G8 dedicato alla Rete che si è svolto recentemente a Parigi. In quella sede, i «potenti» della Terra hanno affermato che la proprietà privata è un bene assoluto e che è tempo di chiudere l’era in cui la Rete era un contesto dove il diritto consuetudinario ha finora regolato l’accesso a ciò che era ritenuto un bene comune, come ha brillantemente sostenuto da Daniel Bensaid in Spossessati, saggio scritto dallo studioso francese pochi mesi prima la sua morte.
Le conclusione del G8 sulla Rete sono state accolte, ma questo era scontato, da una pioggia di critiche da parte di studiosi, mediattivisti. Quello che emerge con forza in Rete, e che costituisce un fatto imprevisto, è il rinnovato protagonismo di alcuni hacker raccolti nella sigla Anonymous, gruppo che avevano già fatto parlare di sé a partire dalla compagna di solidarietà a Wikileaks e a sostegno di uno dei suoi fondatori, Julian Assange.
Anonymous, come scrivono Cassel Bryan-Low e Siobhan Gorman in un testo pubblicato nella lista di discussione «nettime», non è però un gruppo organizzato, bensì un’idea della libertà in Rete che chiunque può sottoscrivere. Le azioni intraprese sono certo decise attraverso un meccanismo di discussione non pubblico, ma poi i singoli possono organizzarle come meglio credono. Altro elemento interessante di questa ripresa dell’attitudine hacker è che Anonymous ha compiuto la scelta di uscire dalla Rete per mettere in relazioni le loro azioni con i movimenti sociali che hanno occupato la scena in Europa e Stati Uniti negli ultimi due anni. Il loro marchio è la maschera indossata dal protagonista del film «V come vendetta» diretto da James McTeigue e che rappresenta un rivoltoso inglese del Seicento, Guy Fawkes ed è apparsa durante le mobilitazioni antiausterità in Inghilterra lo scorso inverno, in Italia durante la rivolta degli studenti e dei ricercatori precari sempre lo scorso inverno e più recentemente ha fatto la sua comparsa durante gli accampamenti degli indignados spagnoli. Infine, la frase che meglio racchiude l’attitudine politica di Anonymous è quella che recita così: «I popoli non dovrebbero aver paura dei propri governi: sono i governi che dovrebbero aver paura dei popoli».
Ed è proprio questa alterità rispetto l’operato dei governi che ha portato il gruppo non solo a compiere azioni in solidarietà di Wilileaks, ma anche a colpire siti di alcune imprese e i governativi inglesi, spagnoli, tedeschi, francesi e statunitensi. L’Italia sembrava al riparo da tutto ciò, fino a quando un video e un comunicato scritto in inglese e italiano ha segnalato che anche il governo italiano era sotto osservazione, perché poco attento nel garantire la libertà di espressione e informazione e perché troppo subalterno alle imprese della comunicazione e dell’intrattenimento. Così, negli ultimi dieci giorni sono stati colpiti siti del governo, del «Popolo delle libertà», di Mediaset, delle ferrovie dello Stato, solo per citarne alcuni. Gli attacchi, come sempre, sono dei Ddos, cioè tentativi reiterati di collegamento ai siti che provocano una «saturazione» di richieste di connessione che provocano il «collasso» del sito. Con un tempismo sconosciuto al personaggio, il presidente del Senato Renato Schifani ha subito parlato di attacco terroristico alla democrazia. Evidentemente per l’attuale maggioranza di governo, la manifestazione del dissenso deve essere relegata nell’empireo posticcio dei talk show per non disturbare l’ordine costituito. Anonymous evidenza però il fatto che ormai il confine tra i conflitti dentro la Rete e al di fuori dello schermo sta diventando sempre più evanescente, consentendo di articolare diversamente tanto la produzione dell’opinione pubblica che le strategie di sottrazione dalle tecnologie del controllo sociale.
È questo il filo rosso che è stato ripreso dai gruppi hacker e che ha la sua genealogia nei gruppi di mediattivisti che nella metà degli anni Novanta del Novecento usarono la tecnica del netstrike per stabilire un link tra i movimenti sociali di allora e il mediattivismo. Operazione che si interruppe non perché non funzionò, ma perché ormai la Rete stava imboccando decisamente la strada dei social network, fattore che metteva in discussione le modalità di azione del mediattivismo. Finita la stagione delle mailing list e dei siti alternativi e antagonisti, l’attitudine hacker ha dovuto fare i conti con la realtà delle «nuvole di dati» spacciate, secondo la definizione di Manuel Castells, come esito di una autocomunicazione di massa altera alla logica delle imprese. La scelta di stabilire affinità elettive con i movimenti sociali non è quindi un episodio legato a una contingenza, bensì la definizione di una strategia che non stabilisce più nessuna distinzione tra coloro che indossano la maschera di Guy Fawkes e coloro che invece fanno «movimento per il movimento».

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