Un voto di liberazione. Una svolta.

I magnifici risultati di Milano e Napoli rompono l’incantesimo di un ventennio, travolgono i vecchi equilibri, infrangono lo stile di un ceto politico. Esplosi subito dopo la chiusura dei seggi, con percentuali da capogiro, emozionanti nelle proporzioni (specialmente quelle di Napoli), i risultati non giungono inaspettati. Ancor prima che dal voto comunale, erano annunciati dalle straordinarie mobilitazioni sociali che hanno segnato gli ultimi due anni della vicenda nazionale.

I magnifici risultati di Milano e Napoli rompono l’incantesimo di un ventennio, travolgono i vecchi equilibri, infrangono lo stile di un ceto politico. Esplosi subito dopo la chiusura dei seggi, con percentuali da capogiro, emozionanti nelle proporzioni (specialmente quelle di Napoli), i risultati non giungono inaspettati. Ancor prima che dal voto comunale, erano annunciati dalle straordinarie mobilitazioni sociali che hanno segnato gli ultimi due anni della vicenda nazionale.

 Nel momento peggiore del peggior berlusconismo, seppellito dagli scandali sessuali e dalla dolorosa crisi economica, dalla parossistica guerra contro la magistratura e dal vergognoso spettacolo parlamentare, si è preso la scena un paese umiliato ma non rassegnato. Le proteste dei giovani, delle donne, degli operai, del mondo della cultura e dell’informazione hanno riempito piazze libere (dai partiti) e arato in autonomia il seme del cambiamento. Chi ne sminuiva la potenza con il ritornello dell’antipolitica, di un antiberlusconismo da ceto medio radical-chic, oggi riceve l’ennesima, sonora smentita. Nei due campi del malato bipolarismo italiano il voto di maggio spariglia. Berlusconi e Bossi frullano dentro una centrifuga impazzita che strappa il mantello al re e toglie alla Lega la corona di regina della “padania”. Nell’altro emisfero della politica arriva al Pd un messaggio altrettanto limpido: i successi elettorali sono il tesoretto portato dai candidati. E non viceversa. Le prove di governi tecnici a-berlusconiani avanzate dal partito di Bersani e dal Terzo Polo appaiono retrodatate, ferme a un’altra epoca rispetto alla novità rivelata dalle campagne elettorali di Pisapia, De Magistris, del giovane Zedda a Cagliari, uniti da un elemento cruciale e determinante: l’essere stati scelti o dalle primarie o fuori dalle alchimie delle nomenklature.
Non è in gioco il passaggio di Palazzo Chigi da uno schieramento all’altro, magari sul binario di una fallimentare corsa al centro. C’è di più, si sta giocando un’altra partita, come del resto ci dicono i quesiti referendari. Nucleare, acqua e legittimo impedimento parlano di un’altra storia, di un’altra democrazia, della centralità dei beni comuni imposti al linguaggio pubblico grazie ai movimenti e nonostante le forze politiche arroccate su posizioni liberiste e sviluppiste. C’è chi paragona questo straordinario risultato elettorale a quello delle elezioni amministrative del ’93 quando la valanga dei sindaci, eletti direttamente, anticipava il governo dell’Ulivo del ’96 sostanziandone il rapporto con il territorio. Iniziava allora il rinascimento napoletano di Bassolino, e molti giovani sindaci andavano al governo delle grandi città, dal nord al sud, da Palermo a Torino. Probabilmente qualcosa di analogo è accaduto anche nello smottamento prodotto dal voto di ieri, una scossa fortissima, anche psicologica, che potrebbe accelerare le elezioni politiche generali e inaugurare la stagione di un centrosinistra con una bussola puntata su un’alleanza di alternativa.

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