Un carcere-voliera per i neo-clandestini

Settantotto tunisini sono rinchiusi nella struttura in attesa di rimpatrio. Sono arrivati in Italia dopo il 5 aprile, quando il governo ha trasformato con un decreto i profughi in immigrati irregolari. Il centro di reclusione crea un minimo indotto nel paese, dall’albergo pieno di carabinieri ai ristoratori che preparano i pasti alle ditte edili che fanno i lavori di ristrutturazione. Così nessuno protesta

Settantotto tunisini sono rinchiusi nella struttura in attesa di rimpatrio. Sono arrivati in Italia dopo il 5 aprile, quando il governo ha trasformato con un decreto i profughi in immigrati irregolari. Il centro di reclusione crea un minimo indotto nel paese, dall’albergo pieno di carabinieri ai ristoratori che preparano i pasti alle ditte edili che fanno i lavori di ristrutturazione. Così nessuno protesta

A vederlo da fuori sembra una voliera: una grande rete alta diversi metri, inframmezzata da putrelle di ferro. Dietro al recinto però non ci sono uccelli, ma uomini: 78 tunisini, sistemati in una serie di tende blu con la scritta «ministero dell’interno». Non hanno contatti con l’esterno. Non hanno mai visto un avvocato. Non ricevono visite da associazioni. Il nuovo Centro di identificazione ed espulsione (Cie) di Palazzo San Gervasio è uno dei luoghi più chiusi d’Italia.
Inaccessibile ai giornalisti, come tutti gli altri centri della penisola dopo la decisione presa d’imperio dal ministro degli interni Roberto Maroni il 1° aprile scorso, svetta in mezzo a una pianura arsa dal sole. A un chilometro circa di distanza c’è il paese di Palazzo, fulcro nodale della raccolta di pomodori di queste zone. A poche centinaia di metri si passa in Puglia. Manduria è a 190 chilometri. Ma in termini di mobilitazione e di visibilità, la distanza si misura in anni luce. Quando, sull’onda degli arrivi a Lampedusa, il governo ha cercato di riempire all’inverosimile la tendopoli del tarantino, la associazioni presenti sul territorio si sono ribellate. Il sindaco ha minacciato di dimettersi, seguito a ruota dal sottosegretario all’interno Alfredo Mantovano. Roma ha fatto una parziale marcia indietro e oggi il campo pugliese è usato come centro di smistamento per richiedenti asilo, dove gli immigrati rimangono al massimo 48-72 ore. Quando, con il decreto del 21 aprile, il governo ha istituito il Cie in Basilicata, nessuno invece si è mosso. Non certamente il sindaco di Palazzo San Gervasio, Federico Pagani, che afferma di «aver dovuto accettare una decisione dall’alto» e si trincera dietro un «no comment» quando gli si sollecitano spiegazioni più dettagliate.
Le critiche della polizia
La struttura di Palazzo San Gervasio è uno dei tre Cie temporanei creati sull’onda della presunta emergenza immigrazione: gli altri due sono a Santa Maria Capua Vetere (in provincia di Caserta) e a Kinisia, alla periferia di Trapani. A leggere il decreto che li istituisce, i tre centri dovranno funzionare «fino a cessate esigenze, e comunque non oltre il 31 dicembre 2011». Sempre a leggere il decreto, si apprende che il governo ha previsto lo stanziamento di una somma pari a 10 milioni di euro, sei milioni per i lavori di ristrutturazione e quattro per le spese di gestione. Dieci milioni di euro per tre centri – la cui capienza massima prevista dalla legge è 500 persone – che dovrebbero rimanere in funzione al massimo sette mesi.
L’istituzione di questi centri non ha suscitato le critiche solo dei militanti anti-razzisti, che soprattutto a Santa Maria Capua Vetere stanno portando avanti una campagna di mobilitazione. Ha scatenato critiche molto veementi da parte delle stesse forze dell’ordine. «Queste tendopoli adibite a Cie non garantiscono le necessarie misura di sicurezza né per gli operatori di polizia né per gli stessi migranti», rileva Claudio Giardullo, segretario generale del sindacato di polizia Silp-Cgil. «L’utilizzo temporaneo delle tendopoli con funzioni di Cie non può certo tranquillizzare operatori che stanno supplendo all’inadeguato impegno di risorse del governo e sui quali ancora una volta si vorrebbe scaricare tutto il peso dell’emergenza immigrazione».
«La ragione superiore»
La storia del centro-voliera di Palazzo di San Gevasio è del tutto particolare. È nato sul territorio di uno stabile confiscato alla mafia come «centro di accoglienza» per i migranti stagionali che in estate si riversavano nella zona per lavorare come braccianti nella raccolta stagionale. «Ha funzionato dal 1999 per dieci anni in questo modo», ricorda Gervasio Ungolo, ex assessore comunale e factotum dell’Osservatorio migranti Basilicata. «Poi, nel 2009, il sindaco lo ha chiuso. Nell’aprile scorso, hanno cominciato a portare i tunisini. Finché, a un certo punto, hanno deciso di trasformarlo in Cie, all’improvviso senza nessuna consultazione con il territorio».
«Hanno deciso di creare questo carcere qui in virtù di qualche ragione superiore», gli fa eco Monsignor Giovanni Ricchiuti, arcivescovo di Acerenza. «Questo non è il modo di fare accoglienza», dice scuotendo la testa mentre guarda la struttura, prima di addentrarsi all’interno per una visita di circa un’ora. «Questo muro è uno scandalo». Ma, al di là delle proteste del prelato, gli abitanti di San Gervasio non appaiono particolarmente toccati dalla nascita del Cie. Tanto più che la presenza di questa nuova struttura crea, in una comunità segnata dalla crisi e lacerata dall’emigrazione, quel minimo di indotto che qui non è da considerare trascurabile: l’unico hotel del paese, il Villa Ester, è al completo, grazie all’arrivo dei carabinieri che devono garantire la sicurezza nel centro; i ristoratori del paese si sono divisi la torta dei pasti per i reclusi; i lavori all’interno sono stati affidati a ditte edili di Palazzo.
Da temporanei a permanenti?
La trasformazione è stata repentina: dopo l’approvazione del decreto, nel giro di pochi giorni è stato innalzata la rete all’interno e costruito un muro di cinta di tre metri, per impedire le fughe e rendere il campo invisibile da fuori Arrampicandosi su un capannone proprio di fronte, si possono vedere le tende sotto la gabbia, i ragazzi tunisini e un gruppo di operai che lavorano su un lato. «I responsabili della prefettura mi hanno detto che vogliono costruire delle palazzine», racconta monsignor Ricchiuti. L’iniziativa è certamente apprezzabile, vista anche l’arsura che toglie il respiro, ma non può non suscitare qualche domanda. Che senso ha fare lavori di questo tipo in una struttura a carattere temporaneo, che per legge dovrà restare in funzione al massimo fino al 31 dicembre? È ragionevole costruire palazzine in cemento solo per permettere ai trattenuti di affrontare la calura estiva? Negli altri Cie già operanti in Italia non c’era posto per questi 78 tunisini? L’iniziativa sembra piuttosto un esperimento. Il ministro dell’interno Roberto Maroni ha sempre detto che ci sarebbe dovuto essere un Cie in ogni regione. Tra il 2008 e il 2009, aveva stanziato con un paio di decreti la cifra di 200 milioni di euro per creare le nuove strutture. Alla fine, le proteste degli enti locali sul territorio lo hanno fatto desistere. Oggi la nuova emergenza immigrazione gli ha consentito di creare questi nuovi Cie. Quello di Kinisia non è ancora aperto, quello di Santa Maria Capua Vetere è continuamente monitorato dalle associazioni sul territorio, dagli avvocati e provoca malumori anche tra le forze di polizia. Quello di Palazzo San Gervasio, a parte qualche voce isolata, non ha suscitato alcuna polemica.

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