Quelle vite di serie B spezzate dal carcere

Il libro di Luigi Manconi e Valentina Calderone dedicato a storie come quella di Cucchi. Il testo raccoglie tredici vicende dolorose che si sono concluse tutte nello stesso modo tragico. Vicende che abbiamo rimosso e che invece è doveroso ricordare e raccontare

Il libro di Luigi Manconi e Valentina Calderone dedicato a storie come quella di Cucchi. Il testo raccoglie tredici vicende dolorose che si sono concluse tutte nello stesso modo tragico. Vicende che abbiamo rimosso e che invece è doveroso ricordare e raccontare

In carcere si muore. Dicono le statistiche del Dipartimento dell´Amministrazione Penitenziaria, 1736 donne e uomini nel primo decennio del 2000. Non sempre da suicidi (66 nel solo 2010). «E un uomo che muore in carcere è il più evidente degli scandali di uno Stato di diritto». Soprattutto se le responsabilità di quella morte, le sue circostanze, sono soffocate dall´omertà degli apparati (penitenziari e di polizia), dall´inazione colpevole della magistratura (cane non morde cane), dalla pigrizia, talvolta vile, dell´informazione, da un crudele senso comune per cui il destino infausto di chi è dietro le sbarre e in genere del diverso è tutto e soltanto sulle spalle di chi, per propria responsabilità, nel carcere o nella “diversità” è stato relegato.

Nel loro Quando hanno aperto la cella. Stefano Cucchi e gli altri (Il Saggiatore, pagg. 243, euro 19), Luigi Manconi, sociologo e presidente dell´associazione “A buon diritto”, e Valentina Calderone, ricercatrice dell´associazione e coordinatrice dei siti innocentievasioni.net e italiarazzismo.it, raccontano tutto questo nell´unico modo che consente di afferrare e non dimenticare mai più cosa significhi «entrare in un carcere per non uscirne vivi». Scoperchiando, con la crudezza, l´asciuttezza e il dettaglio della migliore cronaca, il nostro sarcofago della rimozione, documentando «tredici storie come tante» che custodisce.
Un albo funebre della Repubblica. Di cui una Repubblica dovrebbe provare vergogna, senso di colpa. «Un mosaico doloroso – scrive Gustavo Zagrebelsky, che del volume firma la prefazione – che testimonia di ciò che non fa opinione pubblica. Un libro altamente politico». Che documenta, appunto, cosa accade quando «uno Stato di diritto, che rivendica a sé il potere di impadronirsi della libertà altrui per salvaguardare la sicurezza di tutti, per superare la condizione primordiale dell´homo homini lupus», non riesce ad astenersi dall´esercizio della violenza e della sopraffazione su chi ha costretto in catene.
Le donne e gli uomini vittime di questa violenza di Stato, i fantasmi che popolano le 13 storie del lavoro di Manconi e Calderone, hanno dei nomi e cognomi, delle vite ancora giovani da vivere, fulminate all´improvviso da burocrazie della sicurezza e della contenzione ora ottuse ora crudeli. All´anagrafe sono cittadini uguali agli altri, ma di un´uguaglianza solo formale, perché con loro, cittadini di serie b (operai, falegnami, maestri elementari, fotografi, tossici, extracomunitari), privi di costosissimi principi del Foro al loro fianco nel momento del giudizio (almeno per quei pochi per cui un processo si è celebrato), nudi di fronte alla legge perché soggetti, loro sì, soltanto alla legge, la giustizia penale, le forze dell´ordine, la polizia penitenziaria, non mostrano né lentezza, né inefficienza. Sono spietate. Impermeabili all´ascolto, al buon senso, persino alle grida di dolore, al rantolo che annuncia la morte. In una cella di sicurezza di una caserma, sul letto di contenzione di un ospedale psichiatrico, in un pronto soccorso dopo un pestaggio.
Si chiamano – è bene ancora una volta ricordarne il nome – Marco Ciuffreda (37 anni, carcere di Regina Coeli, 2 novembre 1999), Marcello Lonzi (29 anni, carcere delle Sughere, 11 luglio 2003), Katiuscia Favero (30 anni, ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere, 16 novembre 2005), Eyasu Habteab (37 anni, eritreo, carcere di Civitavecchia, 14 maggio 2006) e Mija Djordjevic (rom, carcere di Regina Coeli, 29 gennaio 2008), Aldo Bianzino (44 anni, carcere di Capanne, 14 ottobre 2007), Niki Aprile Gatti (26 anni, carcere di Sollicciano, 24 giugno 2008), Giuseppe Uva (43 anni, ospedale di Circolo, 14 giugno 2008), Manuel Eliantonio (22 anni, carcere di Marassi, 25 luglio 2008), Carmelo Castro (20 anni, ospedale Garibaldi, 29 marzo 2009), Francesco Mastrogiovanni (4 agosto 2009, reparto psichiatrico ospedale san Luca), Giovanni Lo Russo (41 anni, carcere di Palmi, 17 novembre 2009), Stefano Cucchi (31 anni, ospedale Pertini, 22 ottobre 2009).
Ciascuno di loro ha storie uniche, peculiari, come sono state le vite troppo brevi che hanno vissuto. Ma, per tutti loro, la morte di Stato presenta identiche stimmate. «Il riprodursi di una volontà di sopraffazione – scrivono Manconi e Calderone – La propensione dei governi ad assicurare alle forze dell´ordine una condizione di autonomia, tale da risultare, in determinate condizioni, molto simile a uno stato di intangibilità e, dunque, di impunità». Dunque, per ciascuno di noi, per la polis, esiste un solo dovere: «Contrastare quelle illegalità e qualunque abuso e qualunque comportamento irregolare, chiunque ne sia il destinatario». E intanto non dimenticare. Non volgere lo sguardo altrove.

 

0 comments

Leave a Reply

Time limit is exhausted. Please reload CAPTCHA.

Sign In

Reset Your Password