GERUSALEMME — Sunday Bloody Sunday. Di quelli che non sono mai tornati. Di quelli che non vogliono più farli tornare. È mezzogiorno, quando le sirene urlano per tutta la Cisgiordania: da Gaza a Ramallah, da Nablus a Jenin, 63 secondi a ricordare i 63 anni della Nakba, «la catastrofe» , la nascita d’Israele e la diaspora palestinese.
GERUSALEMME — Sunday Bloody Sunday. Di quelli che non sono mai tornati. Di quelli che non vogliono più farli tornare. È mezzogiorno, quando le sirene urlano per tutta la Cisgiordania: da Gaza a Ramallah, da Nablus a Jenin, 63 secondi a ricordare i 63 anni della Nakba, «la catastrofe» , la nascita d’Israele e la diaspora palestinese.
È mezzogiorno, nella hall del King David, il presidente israeliano Shimon Peres sta ricevendo Giorgio Napolitano, spiegandogli come non ci sia ricordo della Nakba che possa minare il diritto d’Israele alla sua esistenza. È a mezzogiorno, ai confini con la Siria e col Libano, lungo la Striscia e negli slum di Gerusalemme Est, che migliaia di palestinesi si muovono tutt’insieme. Coordinati. Con le molotov. Con le pistole. Con le pietre. A consumare una sanguinosa Nakba come non se ne vedevano da anni. A lasciare in terra decine di feriti, i morti — una dozzina, dicono fonti militari libanesi; sei, i portavoce dell’esercito israeliano— e una certezza: il loro diritto al ritorno, morto da un pezzo in tutti i negoziati di pace. La domenica di sangue, l’avevano promessa. Da settimane. «Sarà un 15 maggio indimenticabile» , avevano scritto su Facebook i sognatori della Terza intifada. «Li sorprenderemo sulle frontiere» , scrivevano i blog del Golfo. Sorpresa riuscita. Gli israeliani s’erano preparati dappertutto meno che lì: chiudendo secondo routine l’accesso ai Territori, sbarrando la Spianata delle moschee, richiamando i riservisti, schierando 10mila poliziotti. A Gerusalemme, nei Territori, ai check-point s’è incendiato e sparato secondo previsione: qualche quarto d’ora d’intifada a Kalandya, scontri al distributore arabo di Issawiya, sassaiole, una decina di poliziotti feriti, una quarantina d’arresti, qualche disordine a Ramallah e a Betlemme… Incredibilmente ignorati i confini, invece, dove migliaia di palestinesi della diaspora, quelli dei campi profughi siriani e libanesi, avevano organizzato le loro marce: «Che ci faceva un colonnello con poche decine di uomini della Brigata Golani — si chiede un militare che vuole restare anonimo — in quel posto sulla linea siriana che tutti chiamiamo Shouting Hill, la collina delle urla?» . Alla fine, ha fatto quel che ha potuto: sparare. Quando un migliaio di manifestanti s’è avvicinato alla rete della terra di nessuno e 150 di loro, sfidando i campi minati, sono riusciti a infiltrarsi fino ai drusi di Majdal Shams, in uno dei villaggi resi celebri dal film La sposa siriana, secondo i testimoni le intenzioni non sono parse subito chiare. «In tanti anni non li avevo mai visti arrivare così vicini» , dice il sindaco. «Sono stanco di vivere in Siria!» , gridava un palestinese. E un altro: «Siamo venuti a riprenderci la nostra terra!» . Sono partiti i sassi, qualche colpo d’avvertimento. La situazione è degenerata presto— a sentire i siriani, con almeno due morti e decine di feriti; secondo Israele, con una vittima e qualche colpito anche fra i militari, a partire dal colonnello — e abbastanza presto è tornata normale: prima del tramonto, gl’infiltrati erano tornati in Siria. Uno dopo l’altro, in contemporanea, si sono aperti gli altri fronti. Quello libanese, con versioni ancora più contrastanti: almeno dieci morti e un centinaio di feriti, a sentire fonti bei- rutine, «gente inerme su cui gliisraeliani hanno sparato» ; tre-cinque uccisi e qualche decina di feriti, dicono da Gerusalemme, con responsabilità anche dei militari libanesi che avrebbero per primi aperto il fuoco sui manifestanti. A nord di Gaza, scene simili, 45 feriti, i tank in azione, con l’esercito che ha ucciso un palestinese mentre «tentava di piazzare esplosivo» vicino a un kibbutz. Dall’Egitto, ha provveduto la polizia a bloccare un corteo di palestinesi diretti sulla frontiera. Qualche tentativo anche dalla Giordania. Proprio mentre a Tel Aviv s’allarmavano per uno strano incidente, che secondo la polizia sa d’atto terroristico: un camion impazzito, guidato da un arabo israeliano, è piombato su un autobus, una quindicina d’auto, alcuni genitori davanti a una scuola, ammazzando un israeliano e ferendo 17 persone. Il camionista, arrestato, dice che la colpa è solo d’una gomma scoppiata. Chi era lì, sostiene d’averlo visto guidare ad alta velocità e sentito gridare «Allah è grande!» . A chi giova, proprio ora, questa violenza? Hamas avverte che siamo a «un punto di svolta» , Hezbollah denuncia «l’aggressione» israeliana, Damasco chiede l’intervento della comunità internazionale, Abu Mazen piange «i martiri» . Morti che peseranno. «Siamo determinati a difendere i nostri confini» , avverte il premier israeliano Bibi Netanyahu. L’avvertimento è a Damasco, che il ministro Lieberman accusa senza remore, mentre un portavoce militare parla di «un chiaro asse Iran-Hezbollah Hamas» . Qualche giorno fa, intervistato dal New York Times, il cugino di Assad aveva avvertito che «se c’è instabilità in Siria, ce ne sarà presto anche in Israele» . E per ironia della storia, dice l’opinionista israeliano Sever Plocker, «la Siria è da sempre l’ultimo Paese al mondo a volere uno Stato palestinese» .
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