PIER PAOLO PASOLINI
Nell’allegoria della «scomparsa delle lucciole» la rivolta di un poeta materialista e sensualista. Anticipiamo ampi stralci da un testo contenuto nell’ultimo numero della rivista «Communitas»
PIER PAOLO PASOLINI
Nell’allegoria della «scomparsa delle lucciole» la rivolta di un poeta materialista e sensualista. Anticipiamo ampi stralci da un testo contenuto nell’ultimo numero della rivista «Communitas»
Siamo nel gennaio-febbraio 1941, Pasolini non ha ancora 19 anni quando scrive in una lettera all’amico Franco Farolfi: «Tre giorni fa io e Paria siamo scesi alle latebre di un allegro meretricio, dove grasse mamme e aliti di nude quarantenni ci hanno fatto pensare con nostalgia ai lidi dell’innocente infanzia. Abbiamo poi minto sconsolatamente. L’amicizia è una assai bella cosa. Nella notte di cui ti ho parlato, abbiamo cenato a Paderno, e poi nel buio illune siamo saliti verso Pieve del Pino, abbiamo visto una quantità immensa di lucciole, che facevano boschetti di fuoco dentro i boschetti di cespugli, e le invidiavamo perché si amavano, perché si cercavano con amorosi voli e luci, mentre noi eravamo aridi e tutti maschi in artificiale errabondaggio. Allora ho pensato come sia bella l’amicizia, e le comitive di giovani ventenni che ridono con le loro maschie voci innocenti, e non si curano del mondo intorno a loro, continuando per la loro vita, riempiendo la notte delle loro grida. La loro maschilità è potenziale. Tutto in loro si trasforma in risa, in risata. Mai la loro foga virile tanto chiara e sconvolgente appare come quando sembrano ridiventati fanciulli innocenti, perché nel loro corpo è sempre presente la loro completa e ilare giovinezza».
Poi, quasi immediatamente dopo: «Così eravamo noi quella notte; ci siamo poi inerpicati sui fianchi delle colline, tra gli sterpi che erano morti e la loro morte pareva viva, abbiamo varcato frutteti ed alberi carichi di amarene, e siamo giunti sopra un’alta cima. Di là chiaramente si videro due riflettori lontanissimi e feroci, occhi meccanici a cui non era dato sfuggire, e allora un terrore d’essere scoperti ci prese, mentre abbaiavano cani, e ci parve d’esser colpevoli, e fuggivamo sul dorso, cresta della collina».
Intransigenza senza riserve
Il primo gennaio 1975, nove mesi prima della morte, Pasolini scrive sul «Corriere della Sera» un articolo politico abbastanza lungo e polemico a proposito dell’eredità del fascismo, intitolato Il vuoto del potere in Italia: «Il confronto reale tra “fascismi” non può essere dunque “cronologicamente”, tra il fascismo fascista e il fascismo democristiano: ma tra il fascismo fascista e il fascismo radicalmente, totalmente, imprevedibilmente nuovo che è nato da quel “qualcosa” che è successo una decina di anni fa. Poiché sono uno scrittore, e scrivo in polemica, o almeno discuto, con altri scrittori, mi si lasci dare una definizione di carattere poetico-letterario di quel fenomeno che è successo in Italia una decina di anni fa. Ciò servirà a semplificare e ad abbreviare il nostro discorso (e probabilmente a capirlo anche meglio). Nei primi anni sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più. (Sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato: e un uomo anziano che abbia un tale ricordo, non può riconoscere nei nuovi giovani se stesso giovane, dunque non può più avere i bei rimpianti di una volta.). Quel “qualcosa” che è accaduto una decina di anni fa lo chiamerò dunque “scomparsa delle lucciole”».
Qual è dunque il momento che designa la «scomparsa delle lucciole»? Quello dell’insediamento di un sistema avvelenato di dittatura consumistica e capitalistica moderna, del mercantilismo a oltranza, della tolleranza in ogni modo dell’edonismo forsennato che conduce alla morte certa di ciò che, nel mondo e nell’umanità, poteva ancora essere amato. Tutta l’opera di Pasolini è costruita su questa protesta, su questa esecrazione, su questa condanna multiforme dell’edonismo commerciale che definirà un giorno – a rischio di scatenare un’ostilità astiosa che lo tormenterà fino alla fine – un fascismo peggiore del precedente perché riuscirà senza il minimo impedimento là dove l’altro si era arenato, vale a dire nell’assoggettamento di tutto e di tutti.
La «scomparsa delle lucciole» non parla solamente del rimpianto di un tempo in cui il mondo aveva una realtà propria prima che il commercio gliene conferisse un giorno un’altra, quando la realtà del mondo era anche il suo fascino; essa è, per Pasolini, l’allegoria della scomparsa della bellezza nel mondo e della bellezza dei corpi in particolare, più precisamente della possibilità dell’amore. E ciò non può essere attribuito a un qualunque pessimismo. Che la bellezza sia scomparsa, non presuppone che tutto ciò che esiste d’ora innanzi è obiettivamente brutto, ma che la progressiva trasformazione di tutta l’esistenza vivente in oggetto (…) è un orrore dinnanzi al quale è normale provare paura e avvertire del disgusto.
È nell’Europa intera, e praticamente nel medesimo momento, che le lucciole sono scomparse. Esse erano una sorpresa notturna, affascinante e insieme un’esperienza di immersione in un tempo continuo che noi colleghiamo all’alba dell’umanità per via di una comune emozione in presenza di quelle stelle danzanti scese all’altezza del viso, quelle luci amorose che si inseguono nella notte come degli esseri soprannaturali.
Questo rigetto/rifiuto dell’epoca – intransigente e senza riserve – che percorre tutta la sua opera, non è, come si sente dire talvolta con una leggerezza mondana e da scriteriati, l’aspetto engagé di Pasolini, come se l’impegno/engagement fosse una cosa separata e identificabile; è l’opera stessa, è la sua potenza, la sua necessità interna, la sua ragion d’essere: «Le azioni della vita saranno solo comunicate e saranno, esse, la poesia, poiché, ti ripeto, non c’è altra poesia che l’azione reale», scrive nel 1966 a New York in Who is me, autoritratto in forma di poema. È dir poco o non dir nulla provare a classificare Pasolini come cineasta, o poeta, o drammaturgo o, infine, scrittore engagé. Ciò non ha alcun senso in verità. Pasolini è un uomo insorto e senza la minima intenzione di riconciliarsi con il suo tempo o con i poteri esistenti né di negoziare che cosa sia ciò; esso è, in se stesso un artista, ancor più esattamente, il poeta di questa insurrezione in tutto ciò che lui ha potuto fare e intraprendere. (…)
Tra distanza e simpatia
Qualcosa turba lo spirito in Pasolini, innegabilmente: una maniera singolare, un modo d’essere, di fare e di dire, un modus che in lui è particolare. E questo qualcosa è essenziale. Non per ciò che concerne la sua personalità o la sua opera, assolutamente multiforme come si dovrebbe sapere. Questo «qualcosa» resiste alla percezione immediata; ed è nel lavoro della lingua, nell’organizzazione dell’argomento, nella mescolanza dei livelli, nell’eterodossia del discorso che si ha qualche possibilità di scoprirlo. Questo «qualcosa» che turba il lettore è collocato nella materia dell’enunciato come in quella del poema, del dialogo, dei film pasoliniani, è una sorta di modalità di composizione, di eterogeneità interna, che ci fa, ad esempio, resistere all’autore pur condividendo ciò che dice, o, all’opposto, facendoci rifiutare in blocco l’argomento pur condividendo l’intenzione, il filo conduttore che la sottende. O, ancora, che ci fa trovare Pasolini opportunamente reazionario pur non riconoscendo alcuna forma di familiarità con ciò che lui dice.
Vi è qui qualcosa di strano e che genera un miscuglio di distanza e di simpatia, che fa dello scritto un’arma per uno scopo, una destinazione che va oltre l’uomo. Pasolini è come un proiettile umano lanciato da Pasolini stesso contro il modus della sua epoca e dei suoi simili. Pasolini è in sostanza il nome che si può dare – con lui – a questo progetto di gettare un essere umano senza controllo, senza autocensura, senza maschera né precauzioni nel laboratorio dello stratagemma dove si elaborano le malversazioni, le menzogne, le mascherate dei poteri. Questo perché Pasolini non è riconducibile a uno stile, a una continuità d’opera (se non quella, politica e letteraria, dell’assillo del fascismo sotto le sue diverse varianti contemporanee), di tema o di estetica.
È questo scandalo che consiste nel costruire una notorietà artistica incontestabile e notevole come luogo in cui combattere un duello a morte con le forze della denaturazione del mondo e i loro rappresentanti reali, in carne ed ossa. E a questo duello lui si è dedicato, sempre più violentemente, fino alla sua morte, usando tanto il suo talento quanto la sua celebrità per ottenere dai giornali lo spazio necessario a questa lotta senza tregua. Solo così si può meglio cogliere che quel che sottintendevano la gran parte delle sue prese di posizione, ciò che più di ogni altra cosa lo faceva uscire dal suo riservo: la ripugnanza per il vile e anonimo agio dei «potenti» delle società moderne, per il perbenismo di sinistra o ancora, per tutte le prese di posizione nel solco della futura ideologia del potere e per tutto ciò che poteva venire avanti come morale del consumismo sotto il discorso della liberazione del sesso, delle abitudini, dei costumi e di tutto ciò che ne segue.
Perdite irreparabili
Ciò che rimane più inquietante in Pasolini, è senza dubbio la solitudine nella quale ha condotto la sua accanita battaglia contro la potenza di una tale ondata; è l’instancabile energia con la quale si è lanciato contro il corso della storia, avendo come soli mezzi quelli dell’arte, della scrittura e del pensiero; è soprattutto che lui si sia lanciato senza nulla attendersi indietro, senza la minima concessione possibile alla speranza d’essere amato almeno da qualcuno. Cosa significa questo lungo discorso amoroso che nessuna amicizia né nessun amore concreto incarnerà mai, se non che è qui il destino di un poeta, e che questo destino non si negozia; e se non che il popolo è scomparso e che questa perdita è per sempre irreparabile, che la vita di una civiltà poggia sui gesti, la cultura, fino nell’aspetto e nella vitalità stesse che queste ispirano ai corpi degli uomini e delle donne?
È questo che dice, sempre dentro l’allegoria delle lucciole: «Era impossibile che gli italiani reagissero peggio di così a tale trauma storico. Essi sono divenuti in pochi anni (specie nel centrosud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale. Basta soltanto uscire per strada per capirlo. Ma, naturalmente, per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla. Io, purtroppo, questa gente italiana, l’avevo amata: sia al di fuori degli schemi del potere (anzi, in opposizione disperata ad essi), sia al di fuori degli schemi populistici e umanitari. Si trattava di un amore reale, radicato nel mio modo d’essere. Ho visto dunque “coi miei sensi” il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiano, fino a una irreversibile degradazione. Cosa che non era accaduta durante il fascismo fascista, periodo in cui il comportamento era completamente dissociato dalla coscienza».
In un certo modo, in Pasolini – e questo lo distinguerà per esempio da Debord, malgrado la prossimità in cui li pongono l’uno e l’altro il tema della decadenza e della rovina del mondo sotto il regno senza riserve della merce e le loro rispettive qualità di polemisti – l’evocazione di un mondo perduto e avvilito dall’«edonismo consumistico» è regolarmente associato a una degradazione estetica dei corpi, alla perdita dell’amore come slancio «innocente» dei corpi gli uni verso gli altri. «Innocente» significa qui: senza adesione ai comportamenti edonistici moderni dettati dal nuovo capitalismo sorto nel dopoguerra. C’è questo di particolare in Pasolini, che ha impedito che lo si classificasse come scrittore marxista-rivoluzionario, cioè che il suo pensiero è a un tempo rigorosamente materialista e fondamentalmente sensualista. Ne risulta del resto una strana mescolanza che fa sì che tutti dialoghino con lui. Liberi di insultarlo, minacciarlo, designarlo come seguace della decadenza o cantore della perversione dei costumi. Tuttavia questo sensualismo è consustanziale alla sua opera, parla dei corpi e dice di voler parlare con il corpo («Vorrei esprimermi con gli esempi / Gettare il mio corpo nella lotta»).
Com’è consustanziale al suo stile polemico – e questa particolarità accresce fortemente il turbamento già menzionato – che ci sia una volontà di dissociare la persona e l’affetto che talvolta per questa persona ha (Moravia, Calvino, Eco …) dalla violenza critica che d’altro canto le rivolge, a costo di riconoscerla in seguito completamente eccessiva. È una cosa bizzarra che non disarma ma dirotta di colpo sull’aggressività polemica. Una sorta di affetto a priori è posto in apertura della proposizione a partire dalla quale si è chiamati ad ammettere la brutalità virile (il termine ritorna assai regolarmente in lui) dello scambio e dei colpi sferrati. In questo modo, prende forma un genere di erotica virile e sentimentale della critica, un erotismo del polemos e dell’impegno politico.
Un mondo antico
Un’idea allora di disegno, che dà un contorno ancora diverso alla personalità di Pasolini; essa concerne, oltre l’omosessualità, il sensualismo che irradia l’insieme delle sue opere. Forse sarebbe opportuno qui (ma Pasolini è lontano dall’essere il solo in questo caso) capovolgere l’ordine corrente dei modi di pensare: la sua scrittura dovrebbe meno all’omosessualità, quand’anche non la si voglia più menzionare, di quanto l’omosessualità dovrebbe, in lui, a una percezione sensuale del mondo a partire dalla lettura e dal sensismo/sensualismo letterario.
Lotta, erotismo degli scontri sportivi e virili, mascolinità «innocente» e affermata nei corpi dei ragazzi, è tutto questo che si ritrova nella descrizione del mondo perduto di Pasolini, quel mondo antico di emozioni amorose e di slanci goffi, sinceri e senza scaltrezza di cui certamente ha conosciuto la fine, nel Friuli della sua adolescenza, e al quale si accordava senza difficoltà la sua lettura febbrile dei greci, dei latini, dell’Ariosto, del Leopardi. Ciò che si dice, ciò che è all’opera nella sua opera e si riafferma senza sosta, è questa cosa essenziale, fondamentale: che l’arte come il pensiero sono una questione di voluttà, e che le opere ne sono tutte assieme lo strumento, la testimonianza e la modalità di trasmissione. Questo vale in Pasolini altrettanto per la politica; come parlare altrimenti che sensualmente di una sensualità scomparsa dal mondo, come parlare del sesso senza palarne in un modo «sessuato», come parlare altrimenti che poeticamente di una poesia che è scomparsa dalle azioni e dalle cose?(…)
traduzione di Beatrice Catini
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