La guerriglia di cinque poeti nell’Italia di «Carosello»

ANNIVERSARI · Nel 1961 per il Verri la prima edizione dei «Novissimi»
Dal primo numero del nuovo mensile «Alfalibri», in uscita con «Alfabeta2», stralci da un intervento dedicato al cinquantenario della celebre antologia

ANNIVERSARI · Nel 1961 per il Verri la prima edizione dei «Novissimi»
Dal primo numero del nuovo mensile «Alfalibri», in uscita con «Alfabeta2», stralci da un intervento dedicato al cinquantenario della celebre antologia

Cinquant’anni fa usciva in Italia, per le edizioni «Il Verri» la prima edizione dei Novissimi. In copertina, oltre al sottotitolo «poesie per gli anni sessanta a cura di Alfredo Giuliani», compariva una descrizione del libro: «la voce violenta della nuovissima poesia italiana».

Rivelazione e rivoluzione culturale insieme, quel famoso libretto sarebbe stato riedito da Einaudi, nella «collana bianca » di poesia, quattro anni più tardi, dopo la costituzione del Gruppo 63 da parte degli stessi autori. Famoso libretto: forse non più tanto. Abbiamo ricordato Calvino, Pasolini, Pavese, Flaiano, per i loro anniversari di nascita o dimorte caduti nel 2010; e ora, nel bel mezzo dei fasti per le celebrazioni dell’Unità d’Italia, rischiamo di dimenticarci del mezzo secolo di questo libretto da combattimento che ha cambiato per sempre la fisionomia e il destino della poesia italiana.

Nel 1961 l’uscita dei Novissimi suonò come una scioccante affermazione politica: la comunità pensante italiana – poeti, critici, intellettuali, lettori – apriva un confronto con il Linguaggio per smascherare, comprendere, decostruire emodificare imeccanismi del Potere. In quei primi anni di boom, in Italia iniziava a farsi manifesta la guerra psichica mossa contro la popolazione: guerra nella quale la pubblicità televisiva rivestiva il duplice ruolo di cavallo di Troia e bomba atomica. (Carosello era nato nel 1957, tre anni dopo l’effettiva diffusione della televisione in Italia.)

Con la pubblicità si affacciava sul territorio nazionale un paradigma antropologico nuovo: quello secondo cui ogni enunciato contiene non uno, ma tre messaggi diversi e divergenti: uno esplicito, che ha a che fare con gli interessi dichiarati dell’ascoltatore, destinato a essere decodificato (A); uno implicito, che ancora riguarda gli interessi dell’ascoltatore, ma inconsci o inconfessabili, che deve essere assimilato senza essere decodificato (B); e uno segreto, che riguarda gli interessi dell’emittente e non deve essere nemmeno intuito dal destinatario (C). Cioè: «Il prodotto X è utile, efficace e conveniente» (A). «Se acquisti il prodotto X non sarai un disadattato, e i tuoi desideri sessuali saranno soddisfatti» (B). «Devi comperare il prodotto X, perché io ho bisogno del tuo denaro e del tuo consenso» (C). Gli effetti di tale riforma del linguaggio erano diversi da quelli delle forme classiche della propaganda politica: questa guerra psichica non puntava solo alla conquista del consenso ma anche alla trasformazione dell’uomo, come si era già visto nei totalitarismi della prima metà del Novecento.

Di fronte alle festose fasi iniziali di questa mutazione antropologica, pochi sembrarono accorgersi del peso delle implicazioni: Pasolini, senz’altro, con la sua accorata lamentazione; e quel manipolo di poeti «violenti», inventori e protagonisti della Neoavanguardia, tutti dediti ad agitare gestualmente il verbo, più che a pronunciarlo, proprio nella speranza di vedere ricadere sulla tavola imbandita le tre carte scoperte, e poter quindi gridare «il re è nudo! ». E così mandare a gambe all’aria il tavolo, l’Italia post-fascista e democristianizzata, e mezzo mondo. La ragazza Carla di Pagliarani, le Predilezioni di Giuliani, il Laborintus di Sanguineti, le Osservazioni sul volo degli uccelli di Balestrini, l’Aprire di Porta, gridavano «il re è nudo, il re è aperto, sezionato, possiamo guardarci dentro e capire cos’è che gli conferisce il potere ».

A rilanciare il senso dell’operazione in un gioco a più livelli, l’appendice del libro era intitolata Dietro la poesia. Così la nuova poiesis, anche quando si guardava allo specchio, gridava «il re è nudo!» Ognuno dei cinque poeti esponeva i propri strumenti di lavori, presentava al pubblico le proprie armi. Se fuori, nella società, le cose andavano facendosi oscure e inesplicabili, e proprio per questo persuasive e pervasive, nella poesia non ci dovevano essere segreti: una guerriglia a volto scoperto. Anche se cambiò la storia della poesia italiana e segnò un limite nell’uso del linguaggio che, per radicalità, non è più stato oltrepassato, la nuova poiesis rappresentata dai Novissimi non influenzò in modo decisivo il rapporto degli italiani con il Linguaggio. E, se di guerriglia si trattava, l’esito non fu una vittoria.

L’obiettivo della Neoavanguardia di parlare al popolo e per il popolo ebbe la sua simbolica Waterloo nel 1976, quando il Secondo tragico Fantozzi dichiarò nei cinema di tutta Italia: «Per me la corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca!». Villaggio, fine rilevatore delle mutazioni sociali, raccontò in poche parole il divorzio in corso tra gli italiani e il linguaggio. (…) Si inaugurò così in Italia, con i dichiarati «92 minuti di applausi» seguiti al grido di Fantozzi, l’epoca dell’orgoglio analfabetico. A cui si coniugò immediatamente l’abiura della logica tradizionale, inverando così la lucida profezia che Orwell vergò nel 1948 nelle pagine di 1984: nell’ordinemondiale seguito alla Seconda guerra mondiale, la regola imposta dalle strutture di potere ai cittadini sarebbe stata: credere nel dogma del «2+2=5».

La scena fantozziana, a un altro livello, parla anche di questo: infatti la corazzata Kotiomkin di Sergej M. Einstein, lunga 18 interminabili bobine, non è certo la stessa cosa della corazzata Potëmkin di Sergej M. Ejzenstejn della durata di 75 minuti.Ma nell’immaginario collettivo italiano, ciò che dice Fantozzi è «La corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca! ». Ecco come, con una subdola sostituzione, si inizia a obbedire al «2+2=5». Dopo Fantozzi venne Berlusconi, che poté seminare in un terreno già ben predisposto. Nel 1985 Alberto Moravia (ce lo ha ricordato di recente «Micromega») sosteneva che «Berlusconi è uno dei massimi responsabili del paese materialistico e afono in cui viviamo». Il resto della storia lo conosciamo tutti fin troppo bene. (…)

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