La colpa del potere

L’immagine assente, insostenibile, l’immagine come sguardo del potere. Se la guerra del Golfo non ha avuto luogo, Osama bin Laden rischia di diventare immortale, di non morire più .

L’immagine assente, insostenibile, l’immagine come sguardo del potere. Se la guerra del Golfo non ha avuto luogo, Osama bin Laden rischia di diventare immortale, di non morire più .
Per la nostra cultura l’immagine è così importante nel certificare il vero, che la strategia degli Stati uniti nell’annunciare la morte del maggior terrorista della storia, ha lasciato tutti perplessi, di più, convinti che niente sia veramente accaduto e che tutto si riduca ad una semplice operazione di propaganda per elevare l’indice di gradimento di un presidente in crisi di consensi. Non solo non è stata mostrata la foto del cadavere, ma il corpo di Osama, che costituiva l’unica prova dell’evento, è stato distrutto gettandolo in mare. Nella legislazione penale di molti paesi, l’assenza del cadavere impedisce l’indagine per omicidio. Ma non basta. In un primo momento sono state diffuse fotografie false, ottenute lavorando su un’immagine molto nota di bin Laden, opportunamente ritoccata. Sul web è stato tutto un fiorire di nuove morti paradossali, Gheddafi, ma anche Berlusconi ritratti in istantanee ritoccate da cadaveri con un trucco clownesco e improbabile. Il significato è chiaro: non ci facciamo prendere in giro.
L’ipotesi del complotto, dopo la negazione di buona parte della storia del Novecento, dai lager nazisti, allo sbarco americano sulla luna, all’evento terroristico di Ground Zero di cui la morte di bin Laden chiude un ciclo, riprende con più vigore. Ma in questo caso ciò che lascia sbigottiti, non è la fantasia dei complottisti, ma la strategia mediatica della presidenza americana, che ha comunicato al mondo un evento di cui erano state preventivamente rimosse tutte le prove. Sembra quasi di trovarsi di fronte ad una ingenuità eccessiva: le foto non vengono mostrate perché «raccapriccianti», il cadavere è stato gettato a mare per evitare che la tomba di bin Laden diventasse oggetto di pellegrinaggio.
Nonostante ciò si richiede all’opinione pubblica mondiale un atto di fede, la certezza che l’evento si è consumato, anche in assenza di prove tangibili. In particolare di quella prova suprema che è stata costituita dalla visibilità dei fatti. È difficile pensare a ingenuità comunicativa da parte dello staff dirigenziale del paese che ha fatto dello storytelling l’arma vincente della sua propaganda.
La guerra in Iraq è stata presentata all’opinione pubblica internazionale come buona e giusta ricorrendo ai reportage dei giornalisti embedded: la Fox ha aiutato la propaganda con servizi come il salvataggio della soldatessa prigioniera del nemico, che si è rivelato a posteriori una vera e propria fiction. Lo stato americano sa usare le immagini a fini propagandistici e l’avrebbe fatto anche in questa circostanza, se l’immagine fosse stata accettabile. Ma forse quell’immagine costituisce un interdetto, è ancora troppo forte rispetto ad uno spirito del tempo che la guerra ed Abu Ghraib hanno già temprato ad ogni forma di violenza.
Abbiamo iniziato citando quella guerra del Golfo che, secondo Baudrillard, non ha mai avuto luogo perché non è mai stata fissata in immagini. L’interdetto a mostrare la guerra che si è protratto fino alla vigilia della seconda guerra del Golfo, nasce con il Vietnam. Prima c’era la retorica dell’eroe e del patriota, ma gli strumenti che ne celebravano le gesta, la letteratura o il cinema, svolgevano un’opera di tradizione e trasfigurazione, mettevano in bella il lato impresentabile della guerra, la violenza, il sangue, i corpi lacerati delle vittime. Col Vietnam questa censura diventa impossibile perché lo scenario di guerra, le vittime, i bambini dilaniati dal napalm sono fissati in immagini da una serie di reporter animati da spirito di denuncia e contestazione. La fotografia rende la guerra impresentabile il momento in cui fissa sulla pellicola la sua immagine vera. Nonostante la supremazia militare, gli americani dovranno abbandonare il fronte vinti non dalle forze nemiche, ma dal discredito della propria opinione pubblica.
Ci sono immagini insostenibili in determinati contesti culturali. Michel Foucault apre il suo libro Sorvegliare e punire con la descrizione dettagliata del supplizio di Damien. Già la cronaca di quella violenza ci appare insopportabile, ma per uno spettatore illuminista appare insostenibile soprattutto la pratica pubblica del supplizio, la sua esibizione come spettacolo. Con l’illuminismo si passa dal concetto di pena al concetto di rieducazione ed oggetto dell’intervento educativo non sono più i corpi, ma le anime. Tutto ciò resiste fino ad un passato prossimo in cui la globalizzazione reintroduce attraverso la cultura islamica, la visibilità di pratiche punitive cruente, dal taglio della mano alla lapidazione, per arrivare alla strage terroristica. Dopo una reazione iniziale di rifiuto, la risposta culturale dell’Occidente mostra una progressiva assuefazione allo spettacolo della violenza. Pensiamo a telefilm come 24 dove la pratica della violenza e della tortura sono giustificate da motivi di sicurezza nazionale. Pensiamo ad Abu Ghraib. Le immagini che all’epoca del Vietnam avrebbero suscitato scandalo e dimissioni del governo, vengono tutto sommato tollerate da un’opinione pubblica che prima di occuparsi di problemi morali, si preoccupa della propria personale sicurezza.
Oggi siamo pronti a vedere di tutto e su Internet si scrive che siamo di fronte ad una scusa, una simulazione, perché non esistono immagini impresentabili, soprattutto se la violenza colpisce un uomo che è stato presentato al mondo come il male assoluto. Negli stessi paesi arabi, lutti e rabbia sembrano contenuti. Sui blog iraniani poi, Bin Laden è definito come assassino. Quella stessa globalizzazione che ci ha mitridatizzato nei confronti dell’esibizione della violenza islamica, ha prodotto dei giovani arabi una rivoluzione culturale a favore del modello occidentale di democrazia. Il ciclo aperto dalla rivoluzione islamica di Komeini sembra essersi bruscamente chiuso con le recenti rivoluzioni del Gelsomino. Osama non è più un eroe, il suo modello insurrezionale ha perso perché nessuno vuole più uno stato integralista basato sulla religione. E forse la sua vera morte, almeno come capo carismatico, non risiede nella sua eliminazione biologica, ma nel superamento di un modello arcaico contrapposto ai valori occidentali. Difficilmente il suo martirio farà di lui un eroe, perché lo spirito e il tempo ha già liquidato la sua ideologia. Perché allora si esita di mostrare la sua immagine in diretta?
Forse dobbiamo pensare davvero che quelle immagini eccedono la nostra capacità di sopportazione. «Il a des images au pourcatoire» scriveva Serge Daney. Sono immagini sospese in un limbo a cui le condanna la loro estrema crudezza. Se mostrate potrebbero produrre disordini e rappresaglie, potrebbero, come teme l’amministrazione americana, muoverci a pietà per la vittima. Un interdetto colpisce la loro visibilità, ma questo interdetto non riguarda il potere, i suoi rappresentanti, lo staff dirigenziale che ha ordinato il blitz e che ha voluto in qualche modo essere presente all’evento tramite una nuova forma di diretta.
Tutte le televisioni del mondo hanno mostrato un piccolo consesso di potenti, il presidente Obama, Hilary Clinton ed altri alti funzionari dello stato raccolti in visione di fronte ad uno schermo che ne trasmette in diretta le fasi dell’operazione. Le forze speciali impegnate nel blitz, hanno sulla fronte una telecamera che, come nelle corse di Formula 1 trasmette l’azione nel suo farsi. E’ come assistere ad un episodio di 24 solo che qui è tutto vero e lo sguardo degli spettatori coincide con lo sguardo del potere. Obama ha ordinato il blitz, ma nello stesso tempo ha voluto essere presente, come chi partecipa in prima persona all’azione di un videogioco. L’atto del filmare si identifica con l’azione. Ci ricordano due vecchi film Lo schermo che uccide e La morte in diretta che partendo da storie d’azione volevano fare riflessione sul cinema come strumento d’intervento surreale.
Nei filmati sulla Casa Bianca che i telegiornali già hanno trasmesso, l’immagine di Bin Laden è assente ma desta nei suoi spettatori un turbamento percettibile. Hilary Clinton si copre la bocca con le mani, sospesa tra la paura e l’orrore. Ma non vediamo quello che loro vedono, ma percepiamo l’intensa drammaticità delle immagini. Rappresentazione di una rappresentazione. Come nel quadro di Velasquez Les meninas, che Michel Foucault rilegge ne Le parole e le cose c’è un soggetto irrappresentabile, nel quadro il re, il potere, nell’immagine di Osama, verso cui convergono gli sguardi di tutti. Quello che per noi non è visibile, lo è per chi ha ordinato l’azione. Ma non è una semplice rappresentazione. Fuori dal nostro sguardo ma sotto gli occhi del potere, si consuma il supplizio di Bin Laden.
(*)Prefazione alla società dello spettacolo di Debord

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