Il poeta rosso

UNA CONVERSAZIONE CON JACK HIRSHMAN
«La poesia è il modo in cui lo spirito dei tempi si manifesta. In un periodo di così profonda crisi sociale, i poeti possiedono la capacità  di ispirare, liberare e trasformare gli abusi che si pongono come ostacoli sulla strada dell’uguaglianza e della libertà »

UNA CONVERSAZIONE CON JACK HIRSHMAN
«La poesia è il modo in cui lo spirito dei tempi si manifesta. In un periodo di così profonda crisi sociale, i poeti possiedono la capacità  di ispirare, liberare e trasformare gli abusi che si pongono come ostacoli sulla strada dell’uguaglianza e della libertà »

 «La poesia non è solo un modo di indagare e comunicare una condizione dell’animo, essa è – ed è sempre stata – il modo in cui lo spirito dei tempi si manifesta. In un periodo di così profonda crisi sociale, i poeti possiedono le armi più potenti: la capacità di ispirare, liberare e trasformare gli abusi che si pongono come ostacoli sulla strada dell’uguaglianza e della libertà di tutte le classi sociali». In un piccolo salotto di una casa nel centro della Roma universitaria, Jack Hirschman, il poeta rivoluzionario d’America, racconta le nuove frontiere della poesia ad una trentina di ragazzi che sono venuti ad incontrarlo. I baffi ispidi, un paio di bretelle rosse da cui non si separa mai, le pantofole ai piedi. Parla piano in italiano, con una voce da cowboy, assaporando ogni parola come un bambino può gustare il sapore di una caramella. Hirschman è arrivato in Italia sul finire di marzo, per una serie di reading organizzati dal suo editore italiano, Sergio Jagulli, responsabile della Casa della Poesia di Baronissi (Salerno) e con lui ha viaggiato per tutta la penisola, fino a toccare Roma come ultima tappa, da solo. «Vengo a Roma per mantenere la promessa che ti ho fatto» mi aveva detto al telefono qualche giorno prima. Ricordai dell’intervista per la quale lo avevo inseguito per tutta San Francisco, accompagnandolo da un reading all’altro, senza mai avere tempo di realizzarla. «Non preoccuparti, avrai la tua intervista», mi aveva detto l’ultima sera, prima di partire per l’Italia. E quella promessa è stata mantenuta.

Ho incontrato Jack Hirschman al Caffè Trieste, un vecchio bar italiano nel cuore di North Beach, a San Francisco, pochi giorni prima dell’inizio di questa primavera. Era al bancone, ordinava un caffè. Lo riconobbi dal suo inconfondibile aspetto: cappello nero a falda larga, i folti baffi bianchi, il People’s Tribune sotto il braccio. Ero lì per intervistare Lawrence Ferlinghetti, poeta ed editore dei maggiori poeti della beat generation. «Lawrence sta arrivando» mi disse «possiamo aspettarlo insieme». I miei giorni a San Francisco, inizialmente nati dal desiderio di ricercare ciò che il mito beat aveva lasciato, si sono trasformati presto in un viaggio attraverso un nuovo modo di fare poesia, quello portato avanti da Jack Hirschman e la sua Brigata di Poeti Rivoluzionari. Questo nucleo di più di settanta poeti, provenienti da tutte le parti del mondo, usa la poesia come strumento al servizio della rivoluzione sociale, strumento di comunicazione che ha già in sé il concetto di azione, perché la poesia “succede” negli eventi, nei reading, negli happening, nell’incontro con l’altro. E invita alla trasformazione di ogni diseguaglianza sociale.
Un reading domestico
Nel salotto della casa in cui vivo, qui a Roma, la sera del 3 maggio Jack Hirschman ha incontrato i giovani esponenti della nuova avanguardia letteraria della capitale: gli Scrittori Precari, i membri del collettivo Terranullius, la Cricca 33, i poeti Marco Cinque ed Alessandra Bava e un folto gruppo di studenti, «una categoria con cui mi è molto difficile venire a contatto direttamente».
La lotta tra il mondo accademico e Jack Hirschman, il poeta rosso, parte da molto lontano. Agli inizi del 1960, dopo un breve periodo presso l’Università dell’Indiana, con il ricavato di una lettera autografa di Hemingway ed una di Jung, riuscì ad ottenere i soldi necessari per trasferirsi a Los Angeles. «Da ragazzo ammiravo molto la prosa di Hemingway. Gli scrissi una lettera inviandogli dei racconti che avevo scritto imitando il suo stile e lui – non so perché – mi rispose; disse che il mio stile era identico al suo, ma la cosa impressionante – a quanto diceva – era il fatto che io fossi solo un ragazzo, ancora potenzialmente in evoluzione, dal punto di vista letterario. In quella lettera mi consigliava di leggere libri utili per la mia formazione, libri che io, in realtà, avevo già letto».
All’Università di Los Angeles trovò lavoro come professore di letteratura inglese ed americana. Nel periodo della guerra in Vietnam la televisione aveva annunciato che gli studenti con una buona media non sarebbero stati chiamati alle armi: il professor Hirschman cominciò a distribuire A per mettere in salvo i suoi allievi, istigandoli a disertare il servizio di leva e a manifestare pubblicamente contro la guerra. Il licenziamento fu la conseguenza immediata di tale dissidenza, che ancora oggi non abbandona il poeta rosso, nel portare avanti l’engagement politico letterario a favore dei diritti degli emarginati e delle minoranze.
«Quindici anni fa gli italiani erano ancora in grado di cantare, ora meno» – confessa Hirschman quando gli chiedo se l’Italia di oggi è poi tanto diversa da quella che ha incontrato la prima volta – «il regime vigente è stato molto negativo nei suoi effetti: la gente è ideologicamente confusa, non esiste un movimento valido contro questo sistema capitalistico; il neoliberalismo è un nuovo modo di chiamare un tipo di fascismo che si sta affermando; il mondo si è globalizzato ma non si è internazionalizzato, è una contraddizione, ma è proprio ciò per cui noi dobbiamo lavorare insieme: l’internazionalizzazione del mondo, che significa la fine dei particolarismi e l’esistenza di una sola nazione, che è la Pace».
Il Vietnam e l’università
Dopo i fatti del Vietnam, Hirschman non è più entrato nel mondo accademico, ma ha proseguito la sua attività come poeta e traduttore, fino al suo trasferimento a San Francisco; dal 1972 questa città ai confini del sogno americano, sul baratro della frontiera, è stata patria d’elezione per il poeta originario di New York, che non l’ha più abbandonata se non per i suoi frequenti viaggi in Europa in compagnia della moglie, la poetessa e pittrice Agneta Falk. A San Francisco, i rapporti editoriali con Lawrence Ferlinghetti si fecero più stretti, trasformandosi in un sentimento di profonda amicizia. Il giorno del nostro incontro al Caffè Trieste, Hirschman mi regalò The Ferlinghetti Arcane, un libretto sottile appena pubblicato, con una poesia dedicata all’amico in occasione del cinquantesimo anniversario del loro incontro. «Arcano, Arcane, è una parola che in inglese è usata come aggettivo. Io la intendo come sostantivo, per indicare un “canto”. Questa è la forma attraverso cui il linguaggio, la filologia, la filosofia, il misticismo… vengono messi al servizio della rivoluzione sociale e culturale. Gli Arcani servono a dare forza alla gente nella lotta contro i fascismi della loro vita, una lotta spesso personale, non per forza politica. È il caso del David Arcane, che scrissi per la morte di mio figlio».
Il rapporto con la beat generation
Un rapporto, quello con Ferlinghetti, tanto più forte quanto fondato su profonde differenze ideologiche e poetiche: «Lawrence è un poeta populista, simpatico. Io scrivo in una maniera più difficile da affrontare, in primo approccio. All’inizio lui criticava spesso questo aspetto della mia poetica. Inoltre, dal punto di vista politico, Lawrence è anarchico, mentre io sono sempre stato legato al partito comunista, per quanto criticamente. Del resto, non è giusto attaccarsi ad una certa idea di comunismo che rischia di precipitare nel reazionario. È un’ideologia nata più di cento anni fa e che ha bisogno di essere rinnovata in relazione al mondo che cambia». La vicinanza alla cerchia dei poeti di San Francisco e l’amicizia con Ferlinghetti, non fanno di Hirschman un poeta beat, come molti invece si ostinano a definirlo. Jack torna costantemente a prendere le distanze da quel gruppo: «La beat generation è molto interessante per queste ragioni: è una risposta sorta dagli stessi stimoli del movimento per i diritti civili. Kerouac ha tradotto in poesia il linguaggio del jazz, collegato alla liberazione dello spirito e del corpo dalla schiavitù. Il movimento dei diritti civili nasce nel 1956 e On the road viene pubblicato nel 1957: questa connessione è fondamentale». Tutto quello che è stato dopo – mi spiega Hirschman – non è nient’altro che status symbol, un atteggiamento sterile che vive sul mito. «Al di là delle connessioni con la cultura afro-americana, il Beat non possiede una particolare filosofia, ma una sostanza, la Marijuana, che è anche il prodotto più esportato dalla California, per quanto illegale. La sostanza della beat generation, il suo status symbol , si basa sul lavoro nero, illegale, di sfruttamento, che le persone accettano e tacitamente ammettono, pur di fare uso di questa droga».
Nel piccolo salotto nel centro di Roma, Jack Hirschman ha lanciato un appello a tutti i giovani poeti: non soccombere al mito. Fare in modo che la poesia diventi azione contro le discriminazioni. Aderire alla Revolutionary Poets Brigade perché il potere della poesia riesca a scavalcare ogni confine. «Ciascuno di noi dovrebbe imparare da uno dei più alti esponenti che la letteratura abbia mai avuto, Pier Paolo Pasolini. Dal suo nome faccio derivare un acronimo: P.P.P.: Passione, Provocazione, Profezia. Questo è tutto ciò a cui la poesia dovrebbe tendere, per essere veramente grande».

BIOGRAFIA La rivoluzione in versi

Jack Hirschman, comunista ed esponente della controcultura americana, lavora da più di quarant’anni come poeta rivoluzionario, traduttore, editore e pittore. Ha combattuto per i poveri, i senzatetto, gli emarginati, gli “ultimi” di ogni estrazione e latitudine. Il corpo delle sue opere consiste in più di 100 libri e opuscoli di poesia, saggi e traduzioni da nove diverse lingue. Secondo le parole del poeta Luke Breit, Hirschman è «il più importante poeta vivente americano». Nel 2006 è stato nominato Poeta Laureato dalla città di San Francisco. Da poco uscito il documentario biografico di Matthew Furey Red Poet, presentato al Riff 2011 nella sezione International Documentary Competition.

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