Aldo Moro durante il rapimento delle Br
 «Quel cadavere sta ancora lì, malgrado il tempo che passa». Così disse Sandro Pertini il 15 marzo 1979, a dodici mesi dal delitto, riflettendo su quanto l'immagine di Moro morto resisteva nella coscienza pubblica e puntando lo sguardo dal Quirinale verso la via Caetani, nel centro di Roma, dov'era stato trovato il suo corpo. Oggi, dopo altri 32 anni, l'icona dello statista democristiano assassinato è sempre presente e resta per molti una torturante ossessione perché «non si volle farlo scendere dalla croce e salvarlo» - parole, sempre, di Pertini - come lui stesso aveva tentato di rendere possibile in un negoziato condotto personalmente dalla «prigione del popolo» dov'era rinchiuso. Trattativa con i terroristi. Ma soprattutto con i vertici del potere italiano, con i quali aveva cercato di dialogare attraverso un fitto carteggio nei 55 giorni di sequestro. ">

I segreti d’Italia nelle parole di Moro

Aldo Moro durante il rapimento delle Br

Le responsabilità  del golpe Borghese, le tangenti Lockheed, la fuga organizzata di Kappler

Aldo Moro durante il rapimento delle Br Aldo Moro durante il rapimento delle Br
 «Quel cadavere sta ancora lì, malgrado il tempo che passa». Così disse Sandro Pertini il 15 marzo 1979, a dodici mesi dal delitto, riflettendo su quanto l’immagine di Moro morto resisteva nella coscienza pubblica e puntando lo sguardo dal Quirinale verso la via Caetani, nel centro di Roma, dov’era stato trovato il suo corpo. Oggi, dopo altri 32 anni, l’icona dello statista democristiano assassinato è sempre presente e resta per molti una torturante ossessione perché «non si volle farlo scendere dalla croce e salvarlo» – parole, sempre, di Pertini – come lui stesso aveva tentato di rendere possibile in un negoziato condotto personalmente dalla «prigione del popolo» dov’era rinchiuso. Trattativa con i terroristi. Ma soprattutto con i vertici del potere italiano, con i quali aveva cercato di dialogare attraverso un fitto carteggio nei 55 giorni di sequestro.

Le responsabilità  del golpe Borghese, le tangenti Lockheed, la fuga organizzata di Kappler

Aldo Moro durante il rapimento delle Br Aldo Moro durante il rapimento delle Br
 «Quel cadavere sta ancora lì, malgrado il tempo che passa». Così disse Sandro Pertini il 15 marzo 1979, a dodici mesi dal delitto, riflettendo su quanto l’immagine di Moro morto resisteva nella coscienza pubblica e puntando lo sguardo dal Quirinale verso la via Caetani, nel centro di Roma, dov’era stato trovato il suo corpo. Oggi, dopo altri 32 anni, l’icona dello statista democristiano assassinato è sempre presente e resta per molti una torturante ossessione perché «non si volle farlo scendere dalla croce e salvarlo» – parole, sempre, di Pertini – come lui stesso aveva tentato di rendere possibile in un negoziato condotto personalmente dalla «prigione del popolo» dov’era rinchiuso. Trattativa con i terroristi. Ma soprattutto con i vertici del potere italiano, con i quali aveva cercato di dialogare attraverso un fitto carteggio nei 55 giorni di sequestro.

Delle lettere dello statista si sa ormai molto, grazie anche a una penetrante analisi filologica di Miguel Gotor pubblicata nel 2008, che ha consentito di superare divergenze fuorviate dall’eterno vizio della dietrologia. Lo storico ha adesso completato lo scavo, impegnandosi sul memoriale che Moro stese di proprio pugno per rispondere agli interrogatori delle Brigate rosse. Un documento manoscritto, poi battuto a macchina e fotocopiato dai carcerieri, che fu occultato, censurato, disperso. Un testo al centro di una trama di ricatti e omicidi da cui affiorano raffinate manipolazioni che chiamavano in causa anche la P2. E che ci è arrivato incompleto e, deliberatamente, a rate.
Una prima parte fu diffusa dai terroristi il 10 aprile ’78 ed era incentrata sulla figura di Paolo Emilio Taviani, il politico dc che era stato uno dei fondatori di Gladio in Italia, ma già politicamente defilato: un brano autografo di otto pagine carico di allusioni la cui importanza non fu capita, dato che il segreto sulla struttura clandestina attivata dalla Nato negli anni ’50, la rete Stay Behind, era conosciuto solo da una decina di persone. La seconda parte (49 fogli dattiloscritti) venne trovata dagli uomini del generale Dalla Chiesa quattro mesi dopo, il 1° ottobre, nel covo br di via Monte Nevoso, a Milano, e divulgata da Palazzo Chigi il 17 ottobre ’78. La terza parte fu scoperta nello stesso appartamento tenuto per anni sotto sequestro, il 9 ottobre ’90, dietro a un pannello rimosso casualmente da un operaio. E stavolta le pagine, fotocopie dei manoscritti, erano 419.

Un brogliaccio di rivelazioni clamorose e giudizi destabilizzanti, di fronte al quale ci fu subito chi parlò di uno pseudo-Moro, negandone l’autenticità. Gotor, in Il memoriale della Repubblica (Einaudi, pp. 624, 25) fa ora come quando l’operatore di un cinema schiaccia il tasto del roll-back e la pellicola va indietro, per vedere e rivedere una scena. Incrocia i testi e squaderna le cronologie. Sgombra opacità, incoerenze e anomalie. Raffronta atti giudiziari, resoconti parlamentari e giornalistici. Alza il velo su molti enigmi di una lunga catena.
Accertando che sul memoriale hanno lavorato due mani censorie, autonome l’una dall’altra. Ad esempio, il materiale che il gruppo antiterrorismo di Dalla Chiesa consegna al governo nel ’78 non è integro: una parte dei dattiloscritti è trattenuta e fatta sparire e intanto viene pilotata una fuga di notizie che costringerà l’esecutivo a rendere pubblico ciò che gli è arrivato. Questo fanno i primi censori, mentre altri senza nome (funzionari dei servizi) nei medesimi giorni si preoccupano di selezionare le pagine, riordinarle secondo una sequenza particolare (successiva, sotto un profilo logico e pratico, a ciò che era affiorato il 1° ottobre ’78), nasconderle nella famosa intercapedine in attesa che venga il momento in cui potranno essere «scoperte». Cioè dopo la caduta del muro di Berlino (’89).
Conclusioni alle quali lo storico giunge dopo aver verificato le testimonianze di alcuni «lettori precoci», che dimostrano di aver letto il documento prima del ritrovamento ufficiale. Persone che a volte muoiono misteriosamente (la scia di sangue parte da Mino Pecorelli, distillatore di pericolose anticipazioni sul suo giornale, «Op»). O persone che raccontano cose delle quali non c’è traccia nel fascicolo Moro, e che non potrebbero essere conosciute. Ciò che induce Gotor a ipotizzare, con salde ragioni, l’esistenza di quello che i filologi chiamerebbero ur-memoriale: un testo a tutt’oggi censurato, probabilmente perché contiene informazioni che rimangono insopportabili. Indicibili per sempre, perché riguardano la sicurezza nazionale.

Di che cosa si tratta? Di nodi critici per il sistema. Alcuni ormai metabolizzati, oggi, ma che non potevano esserlo allora. Tra gli altri, le responsabilità del golpe Borghese e della strategia della tensione, le clausole del cosiddetto «lodo» Moro sul conflitto israelo-palestinese in Italia, le attività della Nato e della Cia, i destinatari delle tangenti Italcasse e Lockheed. Questioni tossiche per la politica, a partire da quella che riguardava il principale protagonista dell’eccidio alle Fosse Ardeatine, l’ex ufficiale delle SS Herbert Kappler. Fu fatto fuggire il ferragosto ’77 dalla struttura supersegreta nota come «Anello», con una finta evasione dall’ospedale del Celio in base a un accordo con la Germania, che soltanto su quello scambio avrebbe appoggiato la richiesta italiana di un prestito urgente.
Un pozzo di segreti che Gotor esplora con il rigore dello storico (senza concedere nulla alle caricaturali congetture sui Grandi Vecchi, dall’Andreotti-Belzebù al Cossiga con la kappa) e la passione di chi vuole comprendere com’è cominciata una deriva da cui è nata l’antipolitica e sulla quale si è annichilita un’intera generazione. Infatti, al pari del delitto Matteotti, la vicenda Moro è un caso chiuso continuamente da riaprire, per chi voglia ricomporre «l’anatomia del potere italiano» e saggiare il peso della ragion di Stato in un Paese come il nostro. Il potere nella sua proiezione internazionale e non solo considerato badando al cortile di casa, con tutti i suoi attori, Moro in primis, il quale, tutt’altro che plagiato, sospetta d’essere vittima di un’operazione dai forti connotati spionistici e per questo dalla cella conduce una battaglia per rendersi indispensabile. Il potere sotto ricatto nella sua dimensione più tragica e conflittuale, come «fatica e durezza di esercizio della sovranità».

Un grande giallo, ma reale e appassionante anche perché scritto benissimo. Una storia dove vero, verosimile e falso si aggrovigliano e sulla quale pendono sempre diversi interrogativi, cui Gotor offre utili tracce di risposta. Dove sono gli originali del memoriale? Perché i terroristi non lo resero pubblico? Fu oggetto di un patto parallelo tra Br e pezzi dello Stato? Ed esistono nastri o video degli interrogatori? «E ora temo che tutto questo sia disperso, per ricomparire, chissà quando e come». Questo confidava Moro alla moglie Eleonora, in una delle ultime lettere. Un timore e una profezia forse non ancora scaduti.

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