È impressionante come l’azione che doveva portarci fuori dall’11 settembre, sia invece prigioniera della sua logica: tutti noi vi siamo talmente assuefatti che tutto ci è sembrato naturale e legittimo. Ci è parso ovvio che una flottiglia di elicotteri da combattimento compisse una missione militare nel cuore di un paese alleato, all’insaputa del governo ospite, attaccasse un edificio di una città -guarnigione accanto a un’accademia militare, uccidesse molti suoi occupanti, di cui almeno uno (il bersaglio vero) disarmato, trafugasse alcuni cadaveri e lasciasse le truppe ospiti a passare l’aspirapolvere.
È impressionante come l’azione che doveva portarci fuori dall’11 settembre, sia invece prigioniera della sua logica: tutti noi vi siamo talmente assuefatti che tutto ci è sembrato naturale e legittimo. Ci è parso ovvio che una flottiglia di elicotteri da combattimento compisse una missione militare nel cuore di un paese alleato, all’insaputa del governo ospite, attaccasse un edificio di una città -guarnigione accanto a un’accademia militare, uccidesse molti suoi occupanti, di cui almeno uno (il bersaglio vero) disarmato, trafugasse alcuni cadaveri e lasciasse le truppe ospiti a passare l’aspirapolvere.
Solo un po’ alla volta, qualcuno ha cominciato a porsi problemi di legalità, per primo l’ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt, per cui l’azione Usa «ha violato la legalità internazionale», poi anche il ministro degli esteri pakistano Salman Bashir (per ragioni pelose) e l’Alta Commissaria dell’Onu per i diritti umani Navy Pillay. Tanto che il ministro della giustizia Usa (Attorney General), Eric Holder, ha sentito il bisogno di ribadire la legalità del raid invocando la difesa nazionale.
In realtà l’illegalità è duplice. La prima riguarda l’azione militare, e dipende dall’area grigia – nel diritto internazionale – creata dall’11 settembre e dai presidential orders successivi al Patriot Act (2001) che autorizzano le extraordinary renditions, la cattura di cittadini stranieri in terra straniera, anche se amica, e la loro deportazione in basi militari all’estero per esservi interrogati (torturati), processati da una corte militare ed eventualmente fucilati, all’insaputa del mondo intero. Questi decreti presidenziali costituiscono l’espressione più brutale dell’illegalità generata dall’11 settembre. In fondo, se bin Laden fosse vivo e detenuto in una base Usa, proprio questo sarebbe stata l’azione del 2 maggio, la più spettacolare delle extraordinary renditions, con il prigioniero interrogato nella base di Bagram.
I casi sono due: o il Pakistan (190 milioni di abitanti e potenza nucleare) è uno stato sovrano alleato (o comunque non ostile) e allora andava avvertito e chiesta la sua autorizzazione; oppure l’azione andava condotta in segreto perché in terra nemica. Il problema è che solo di nome il Pakistan è uno stato sovrano e per di più, al di là dei trattati, il suo statuto reale è quello di alleato/nemico che non può essere preso di petto perché potrebbe cambiare campo e allearsi con la Cina in nome – tra l’altro – dei comuni interessi anti-India.
La seconda illegalità riguarda l’uccisione di un prigioniero disarmato: che fosse il punto delicato di tutto il raid, lo dimostra il fatto che la Casa bianca all’inizio aveva invece affermato che bin Laden era armato ed era stato ucciso in uno scontro a fuoco.
Siccome nessuno è nato ieri, comprendiamo bene le ragioni per cui un bin Laden prigioniero vivo fosse ingestibile per gli Stati uniti. Ma colpisce che gli sceneggiatori del raid non abbiano trovato soluzioni più presentabili. Gli sceneggiatori hanno scartato l’opzione «Saddam Hussein» (a sua volta replica dell’opzione «processo di Norimberga» ai gerarchi nazisti) per il boomerang provocato dalle foto umilianti del volto scarmigliato del rais subito dopo la cattura e perché anche il processo si era ritorto contro (immaginate la risonanza di dichiarazioni processuali di Osama bin Laden). Ma poi hanno scartato anche l’opzione «Che Guevara», mostrare la salma del nemico ucciso, perché la storia ha insegnato che anche quella foto di 44 anni fa fu un boomerang: e a noi occidentali può non piacere, ma per molti islamici bin Laden è una sorta di Che Guevara, è l’unico arabo da Solimano il Magnifico in poi ad aver appioppato un sonoro schiaffo all’arroganza dei «franchi».
Ma anche l’opzione rimasta – quella dell’uccisione furtiva e della frettolosa, clandestina sepoltura in mare – si rivela controproducente perché l’atto che dovrebbe riparare un enorme crimine (i 3.000 morti dell’attentato alle Torri gemelle), giunge ad avere troppi punti in comune con un’esecuzione mafiosa (come ha già osservato la columnist del New York Times Maureen Dowd), con i picciotti che vanno a scatenare un inferno di fuoco nella casa dove è nascosto con la sua famiglia il padrino rivale, per poi sbarazzarsi del cadavere zavorrato di cemento. Neanche sul terreno della mera vendetta, né il fragore del World Trade Center che crolla né i 3.000 morti in mondovisione possono pessere ripagati da un’esecuzione alla chetichella.
C’è da chiedersi se non c’era una soluzione migliore, una «narrazione» più efficace per chiudere la ferita dell’11 settembre 2011 senza ripiombare nell’opacità. E non per moralismo, ma perché così rischiano d’intorbidire e sminuire una vittoria che avrebbe potuto essere non solo contro al Qaeda ma anche contro i Bush e i Cheney.
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