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Declassati e scontenti alla ricerca di autonomia

PRODUZIONI IMMATERIALI La retorica corporativa e meritocratica del lavoro intellettuale

PRODUZIONI IMMATERIALI La retorica corporativa e meritocratica del lavoro intellettuale


La memoria deve tornare alla metà degli anni Novanta e muoversi nella giungla della retorica sulla società della conoscenza, l’alba di un nuovo mondo che doveva mettere al centro della scena l’intelligenza, la creatività. Da lì a pochi anni a Lisbona i paesi dell’Unione europea avrebbero stilato un patto che impegnava tutti i paesi che ne facevano parte a investire nell’istruzione e nella ricerca scientifica. Per sopravvivere allo tsunami della globalizzazione, veniva allora sostenuto, il vecchio continente doveva far leva sulla conoscenza e la cultura. Allo stesso tempo, però, uno dei paesi che più credeva nella «società della conoscenza», la Francia, era accusato da studenti, docenti e ricercatori di muovere una guerra contro «la materia grigia», cioè proprio quel sapere che doveva salvare il paese dal declino.
Da allora è sempre stato così. Tanto più il sapere e la conoscenza diventavano materie prime e mezzi produttivi tanto più il lavoro intellettuale conosceva processi di svalorizzazione, di «declassamento», come amano ripetere gli studiosi anglosassoni e francesi. E questo accade tanto nelle Università che nella produzione culturale e nella ricerca scientifica. A tre lustri dal lancio della «società della conoscenza», l’Europa e gli Stati Uniti hanno perso le prime posizioni nelle classifiche delle Università più prestigiose nel mondo. All’opposto, paesi come la Cina, l’India, Il Brasile hanno imboccato la strada dell’investimento nella conoscenza per uscire dalla subalterna condizione di produttori di merci «hard».
Innovazione a rischio
È cosa ovvia che una situazione di questo tipo provochi meccanismi reattivi da parte di chi, socialmente, è indicato come un lavoratore intellettuale. Sono dieci anni che, con continuità, forti movimenti di studenti e di ricercatori riempiono le strade di Parigi, Madrid, Roma, Atene, Londra. Ma ciò che sta accadendo è molto più una mera reattività alla perdita di status. Quello che emerge è una lettura del lavoro intellettuale intrecciato con la crisi del regime di accumulazione capitalistico che si è soliti definire neoliberismo. La precarietà, il declassamento, la crisi delle discipline del sapere sono infatti da articolare come tasselli di un tentativo teso a riprendere il controllo di una lavoro sociale che eccede i rapporti sociali dominanti. Sia ben chiaro, non c’è nessun piano del capitale all’orizzonte. Quello che sta avvenendo nei paesi capitalistici non si spiega attraverso una presunta cospirazione per colpire l’inizio di una nuova società. Bensì sulle caratteristiche del lavoro sans phrase nel capitalismo contemporaneo. Se il sapere e la conoscenza sono fattori «strategici» del processo produttivo, devono potere essere messe sotto controllo. Ma in questo caso il rischio di una perdita di capacità nel favorire processi innovativi è molto alto. In altri termini, le imprese devono favorire la conoscenza e il sapere, ma allo stesso tempo definire dispositivi di controllo per mantenerle ancorate all’impresa stessa.
Per questo motivi la deregolamentazione del mercato del lavoro è un aspetto centrale nelle politiche economiche in tutti i paesi capitalistici. Da una parte hanno come effetto la svalorizzazione di tutto il lavoro, non solo di quello intellettuale. Dall’altra, attraverso la moltiplicazione delle forme contrattuali, compreso i meccanismi che favoriscono la crescita del lavoro autonomo di seconda e terza generazione, punta a un istituire una generalizzata individualizzazione del rapporto di lavoro. Una sorta di principio di individuazione dalla caratteristiche ambivalenti. Riconosce cioè la difficoltà di una massificazione del lavoro intellettuale, ma stabilisce dispositivi per la sua subordinazione.
Riflessi corporativi
Ambivalenti sono però anche le forma di risposta a tutto ciò. Da una parte, c’è una sorta di reazione che punta a ripristinare il mondo perduto. Si invoca cioè la figura dell’intellettuale in quanto coscienza critica della società, opponendo un verace rifiuto ad affrontare il fatto che tale svalorizzazione del lavoro intellettuale è parte integrante della guerra in corso contro il lavoro en general. Un riflesso corporativo che in Italia, ad esempio, adotta un lessico generazionale per criticare i dispositivi di controllo sul lavoro vivo ridotti però a medievali forme di governo gerontocratico sulle carriere, sull’accesso all’università e alla produzione culturale. Basta connettersi alla Rete, visitare un sito di giovani scrittori o qualche blog di un giovane ricercatore che invoca la meritocrazia e il «pieno» di retorica generazionale è assicurato. Non che il conflitto generazionale non esista, ma potrebbe essere meglio compreso se contestualizzato alla penuria di risorse economiche destinate al lavoro intellettuale. Le passioni tristi per il merito, il risentimento, più che contrastare, favoriscono la tendenza a trasformare la conoscenza in una risorsa scarsa. E questa deriva corporativa accomuna i «giovani» e i «vecchi» che prendono la parola nella discussione pubblica. Il conflitto generazionale è l’altra faccia della medaglia di quella nostalgia per lo status perduto che va oltre i dati angrafici dei «lavoratori intellettuali».
Ma l’ambivalenza ha una sua potenza performativa solo se rimane tale. Il problema è dunque sciogliere l’ambivalenza delle forme di resistenza alla svalorizzazione, meglio al declassamento del lavoro intellettuale. E preparare il terreno per quel processo costituente che prenda congedo, sconfiggendola, dalla guerra all’intelligenza. Cioè la guerra combattuta contro l’intelletto generale.

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