Ucciso un poliziotto cattolico a Omagh, l’economia in crisi incoraggia l’estremismo
Ucciso un poliziotto cattolico a Omagh, l’economia in crisi incoraggia l’estremismo
La minaccia di una ripresa della lotta armata in Irlanda del Nord è reale. Lo dicono i servizi britannici, l’MI5. Ma lo dicono anche le autorità dell’Eire, allarmate per l’omicidio di un poliziotto e la scoperta di un nuovo ordigno, un mortaio trovato vicino a Dublino, che gli inquirenti ritengono faccia parte di un nuovo arsenale più sofisticato che in passato e, con tutta probabilità, proveniente dall’Europa dell’Est.
Esiste una branca della dissidenza che non ha mai accettato gli accordi di pace, e oggi predica il ritorno alla violenza. Lo scorso fine-settimana un’autobomba ha ucciso un poliziotto a Omagh, nella contea di Tyrone, Irlanda del Nord. È il secondo agente vittima di un attentato da quando, nel 2007, è stata creata la Psni (Police Service of Northern Ireland), nell’ambito dell’attuazione del Belfast Agreement, gli accordi del 1998 tra Repubblica d’Irlanda, Irlanda del Nord e Regno Unito che hanno avviato il processo di pace. A questi accordi continuano ad opporsi piccole frange di estremisti. Negli ultimi anni vi sono stati decine di interventi per sventare lo scoppio di ordigni piazzati nelle auto della polizia. Nel 2009, un poliziotto era stato ucciso dopo che aveva risposto ad una falsa chiamata di emergenza. Il valore simbolico dell’omicidio di Omagh è però enorme: proprio a Omagh, nell’agosto del 1998, morirono 31 persone, nell’attentato più grave della storia del conflitto nord-irlandese.
Matt Baggot aveva 25 anni e aveva concluso la scuola di polizia a dicembre. Era un poliziotto della nuova generazione di cattolici che, in base agli accordi di pace, avrebbe dovuto integrare i ranghi del Psni per controbilanciare la maggioranza protestante della polizia nord-irlandese. A suo modo, era un uomo di pace, perché rappresentava – come molti suoi colleghi – la prova vivente di quanto è stato fatto per la riconciliazione tra le fazioni che si sono combattute per oltre trent’anni. Secondo un accordo del 2001, infatti, l’organico di polizia, fino ad allora costituito dal 92 percento di protestanti/unionisti, avrebbe dovuto obbedire a una politica del 50 e 50, nel tentativo di risolvere la sottorappresentazione della minoranza cattolica/repubblicana. Colpendo lui, si è deciso di mettere in discussione con la violenza il lento e faticoso cammino verso la pace.
Gerry Adams, il presidente del Sinn Fein, un tempo era il braccio politico dell’Ira, ha condannato l’attacco, affermando che il suo partito “è determinato ad impedire a quelli che l’hanno compiuto di portare indietro il processo di pace e politico”. Sta di fatto che negli ultimi mesi gli ex membri della Provisional Ira (che ha decretato la fine della lotta armata nel 2005) sono confluiti in numero sempre maggiore nella Real Ira e in altri gruppi dissidenti che non accettano l’accordo di pace. I servizi di sicurezza britannici e irlandesi stimano che siano tra gli 800 e i 900 gli attivisti che non hanno deposto le armi in Irlanda del Nord. Secondo molti, la ragione del reclutamento da parte dei movimenti nazionalisti estremisti è da ricercarsi nella crisi economica irlandese. Dopo anni di crescita, la Tigre celtica è collassata in modo inatteso quanto rovinoso. Nella repubblica d’Irlanda la disoccupazione ha raggiunto quasi il 13 percento: anche questo ha incoraggiato i giovani ad affiliarsi ai gruppi scissionisti. Ma né l’Ira, né Sinn Féin hanno più il potere di influenzarli o di fermarli.
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