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Se lo scontro non è un’invenzione classica

 Crudeli e insofferenti verso “gli altri” ma senza mai odiarliUn saggio spiega come Greci e Romani non fossero xenofobiAnche nelle guerre contro i persiani non ci fu mai quel clima da “occidente” contro “oriente”. E Cesare non disprezza i Galli 

 Crudeli e insofferenti verso “gli altri” ma senza mai odiarliUn saggio spiega come Greci e Romani non fossero xenofobiAnche nelle guerre contro i persiani non ci fu mai quel clima da “occidente” contro “oriente”. E Cesare non disprezza i Galli 

Uno straniero lacero, sporco, affamato, proveniente da chissà dove, approda su un´isola del Mediterraneo. Anziché scacciarlo, Penelope ordina di lavargli i piedi. L´indimenticabile scena dell´Odissea ci dà un´idea di cosa pensassero gli antichi dei doveri di ospitalità. Ma ancora più sorprendente è scoprire il rispetto che i Greci nutrivano persino per i loro “nemici giurati”, i Persiani, e i Romani per i Cartaginesi, i “selvaggi” del Nord e dell´Est, gli Africani e persino i tanto bistrattati Ebrei. È fin sorprendente quanto negli antichi autori, anche nei più sciovinisti, nei più prevenuti, ci sia sì spesso disinformazione, talvolta pregiudizio, talvolta denigrazione, talvolta senso di superiorità, talvolta fastidio, talvolta anche più o meno bonaria irrisione dell´estraneo, dell´”altro”, dello “straniero”, ma mai odio. Gli antichi avevano le loro fisime, i loro luoghi comuni, erano feroci coi nemici, crudeli coi vinti, infastiditi dagli ospiti indesiderati e dagli usi e costumi estranei, diversi dai propri. Ma non xenofobi, nemmeno per opportunità politica. 
L´ultimo libro del grande classicista americano Erich S. Gruen offre una lettura assolutamente affascinante sull´argomento. Si intitola Rethinking the Other in Antiquity, è stato appena pubblicato dalla Princeton University Press. Prende in esame gli stessi testi che avevano portato altri studiosi ad elencare i semi del pregiudizio etnico, o persino l´”invenzione del razzismo” nell´antichità, ma li colloca nel loro contesto, giungendo alla conclusione che le cose stanno non proprio come siamo stati abituati a considerarle in base ai pregiudizi della nostra epoca, o comunque si prestano a letture più sfaccettate e complesse. 
Greci contro Persiani. L´inizio del “conflitto di civiltà” tra l´Occidente e la “barbarie” dell´Oriente. Ovvio, no? No, non così ovvio. Eschilo aveva messo in scena i suoi Persiani appena sette anni dopo che i Greci avevano respinto una massiccia invasione e avevano ragione di temerne altre. Aveva lui stesso combattuto nelle file ateniesi. Non è affatto un pacifista. Eppure i suoi Persiani non sono demoni, sono semplicemente esponenti di una comune umanità, sono vittime travolte da una tragedia politica e umana, non bersagli di propaganda politica. Così Erodoto, il grande cronista delle guerre persiane, che, lungi dal contrapporre schematicamente la “libertà” dei Greci al “dispotismo” orientale, attribuisce ai Greci difetti “orientali”, quanto ai Persiani virtù che definiremmo “occidentali”. I “ricchi” che pretendono di esportare ai “poveri” il loro più elevato tenore di opulenza e una civiltà “superiore” sono i Persiani, peraltro definiti da Erodoto, senza ulteriori commenti come «più aperti ai costumi stranieri di qualsiasi altro popolo». Gli piace in particolare che abbiano in avversione la menzogna. Non per niente diversi secoli dopo Plutarco l´avrebbe chiamato philobarbaros.
Non si può immaginare peggior nemico per Roma del nordafricano Annibale. Contro Cartagine fu escogitata tutta una violenta “propaganda di guerra”. Su quel nemico sono giunti a noi solo i resoconti di parte dei vincitori (e malgrado questo il personaggio giganteggia). Ma nemmeno nella foga delle guerre puniche l´avversario venne presentato come incarnazione della “barbarie nera”, mostruosa alterità etnica. Il concetto di Punica fides, di cartaginese infido e per natura traditore si affermò in realtà solo molto dopo la distruzione di Cartagine, e anche lì spesso in modo scherzoso, facendo satira sugli stereotipi, o magari rovesciando le parti, come nel Poenulus di Plauto o anche nell´Eneide di Virgilio. È Enea a fare un brutto tiro a Didone, non viceversa. Straordinario come, anziché affermare la propria identità in termini di “purezza” nei confronti dell´altro, gli antichi si inventassero genealogie fittizie di ogni genere per rivendicare invece origini comuni, se non addirittura una comune umanità con gli altri popoli. 
Cesare non disprezza i Galli. Anzi si sforza di studiarli con più profitto di quanto recentemente si sia cercato di studiare l´Iraq o l´Afghanistan, ne sa probabilmente più di quello che oggi sappiamo della Libia, dell´Egitto o dell´Iran. Tacito parla dei Germani, i “barbari” per antonomasia dei suoi tempi, in termini che avrebbero addirittura montato la testa agli apologeti del moderno Terzo Reich. Ma Gruen invita a non perdere di vista la sua vena ironica e a non sottovalutare l´abile manipolazione con cui lo storico romano attribuisce ai Germani virtù e difetti che lui vorrebbe indicare ad esempio o denunciare nella Roma imperiale del suo tempo. Insomma, usa la sua Germania per dire cose che non potrebbe apertamente dire della sua Roma. Pecca di eccesso di assimilazione, piuttosto che di contrapposizione.
Tacito, si sa, fu gran diffamatore degli Ebrei. Era abbastanza cinico da cavalcare il fastidio dei Romani per quella che consideravano una vera e propria, continua invasione di profughi, che per giunta restavano attaccati alle proprie strane usanze, facendo cricca a sé, e addirittura, nelle parole che Giuseppe Flavio attribuisce a Tito, osavano anche ribellarsi contro i loro benefattori, «mordendo la mano che li nutriva». Ma persino le sue invettive potrebbero essere lette in altro modo: come un gioco malevolo che prende di mira gli idioti e i mascalzoni al potere in casa propria, prima ancora che gli stranieri.
E dire che i loro stranieri dovevano essere particolarmente ingombranti. Ne avevano importati a frotte come schiavi, e questi gli facevano paura solo quando si ribellavano. Ma poi, col succedersi di “manumissioni” – era un incentivo formidabile, che fece la fortuna economica di Roma – divennero cittadini a tutti gli effetti, indipendentemente dall´origine etnica, persino dal colore della pelle. I “non romani” divennero ad un certo punto forse addirittura maggioranza. Questo suscitava anche forti risentimenti, specie quando i liberti assumevano posizioni di potere. Sarà magari perché si rendevano benissimo conto che degli stranieri avevano bisogno, ma colpisce l´assenza di incitamenti alla xenofobia viscerale. Paradossalmente i guai cominciarono quando, molto più tardi, cercarono di fermare maldestramente alle frontiere popoli scacciati da altri popoli più aggressivi. Ma questa è un´altra storia.

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