Proviamo a tastare il polso della più recente letteratura scientifica pertinente ai problemi della droga, sia nel campo della neurobiologia biochimica che in quello epidemiologico. ">

Scienza e droga, le forzature medico patologiche

Proviamo a tastare il polso della più recente letteratura scientifica pertinente ai problemi della droga, sia nel campo della neurobiologia biochimica che in quello epidemiologico.

Proviamo a tastare il polso della più recente letteratura scientifica pertinente ai problemi della droga, sia nel campo della neurobiologia biochimica che in quello epidemiologico.

Indubbiamente la qualità di molti lavori è buona o addirittura eccellente: ma ci si chiede perché non di rado gli autori – e più spesso i commentatori – si appiglino a questo o quel dato decontestualizzandolo, promuovendo nel meno peggiore dei casi una visione medico- patologica del fenomeno droga, ammucchiando in un unico calderone le varie tipologie di consumo più o meno problematiche. Prendiamo allora due esempi. Il gruppo canadese di Steven Laviolette pubblica da qualche anno su importanti riviste ottimi lavori che riguardano il ruolo della trasmissione cannabinergica – cioè i fenomeni innescati dall’attivazione o dal blocco dei recettori cerebrali dei cannabinoidi – nella elaborazione delle memorie associative rilevanti per le esperienze affettive, in particolare di quelle delle esperienze che suscitano paura. (L’ultimo lavoro, dal quale si risale anche ai precedenti: Huibing Tan et al, The Journal of Neuroscience, 6/4/2011, vol. 31, pp. 5300-5312). Perché gli autori estrapolano strizzando l’occhio alla letteratura clinica ed epidemiologica che sostiene un ruolo determinante dei cannabinoidi «nei disturbi psicopatologici come la schizofrenia, che sono caratterizzati da profondi disturbi nelle regolazioni emozionali», dato che da tempo immemorabile tale tipo di estrapolazioni sono state fatte a pezzi dagli esperti più qualificati? Si tratta di una inconsapevole introiezione di messaggi ideologico-politico demonizzanti, o di trucchetti per «vendere» meglio i propri prodotti peraltro eccellenti, o di altro ancora? Ai posteri…. ; ma regolarmente c’è subito chi scende in picchiata per amplificare la forzatura, come per esempio nel lancio di un importante sito delle università canadesi (http://www.canadian- universities.net/News/tag/steven-laviolette). Andiamo all’altro polo, cioè ai lavori epidemiologici già spesso commentati in questa rubrica, secondo i quali l’uso anche moderato di cannabis durante l’adolescenza accrescerebbe il rischio di gravi disturbi mentali, in particolare quello di schizofrenia. (L’ultimo: R. Kuepper et al., Britsh Medical Journal, 2011;342:d738 – doi:10:1136). In primo luogo va notato che anche gli studi meglio controllati – cioè prospettici di lunga durata, di coorte con numerosissimi soggetti, con particolare attenzione per il possibile ruolo di fattori confondenti – sono sempre studi osservazionali da prendere con le molle. Ne testimonia per esempio il caso tristemente famoso e alquanto imbarazzante degli studi osservazionali che mostravano «inoppugnabilmente » i benefici degli estrogeni in menopausa, ma i cui risultati furono non solo smentiti, ma addirittura ribaltati quando finalmente si condussero vere e proprie sperimentazioni cliniche (con gruppo di controllo, randomizzate, in «doppio cieco»). In secondo luogo, non si può non tener conto della entità dell’aumento di rischio: cioè se è di parecchie volte, è meno probabile che venga smentito dagli studi sperimentali (che per ovvii motivi di etica medica non si possono fare nel caso di droghe); ma se è più limitato, invece, resta a forte rischio di smentita. Nel caso del rapporto cannabis-psicosi, gli studi osservazionali meglio controllati danno in media un aumento di rischio intorno a 1,4, mentre secondo il rapporto della fondazione Beckley (Cannabis Policy, Moving beyond stalemate, da poco pubblicato dalla Oxford University Press), nessuno studio ha potuto tener conto di tutti i possibili fattori di confondimento. L’ultimo, del British Medical Journal, conclude per aumenti di rischio di 1,9 e di 2,2 rispettivamente per l’insorgenza e la persistenza di sintomi psicotici dopo uso di cannabis, ma con limiti fiduciali inferiori – cioè quelli ai quali il valore può scendere tenendo conto della probabilità statistica – rispettivamente di 1,1 e 1,2: cioè un super-piuma rispetto al non-rischio, che facilmente volerebbe via (o addirittura potrebbe rovesciarsi) se si dovesse tener conto di qualche fattore di confondimento non identificato, o se fosse lecito ed eticamente accettabile procedere a veri e propri studi sperimentali come nelle prove sui nuovi farmaci. La morale di questa brutta favola la possono agevolmente trarre i lettori. (La ricerca su cannabis e schizofrenia su www.fuoriluogo. it)

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