L'acronimo con cui si firmano è volutamente parodistico della Crui, la «Conferenza dei Rettori delle Università  Italiane»: associazione finanziata dalle università  pubbliche che vi aderiscono e che appare come un autoreferenziale club, accasatosi nel cuore del triangolo politico della Roma barocca. ">

Pratiche comuni per schivare il Potere

L’acronimo con cui si firmano è volutamente parodistico della Crui, la «Conferenza dei Rettori delle Università  Italiane»: associazione finanziata dalle università  pubbliche che vi aderiscono e che appare come un autoreferenziale club, accasatosi nel cuore del triangolo politico della Roma barocca.

L’acronimo con cui si firmano è volutamente parodistico della Crui, la «Conferenza dei Rettori delle Università  Italiane»: associazione finanziata dalle università  pubbliche che vi aderiscono e che appare come un autoreferenziale club, accasatosi nel cuore del triangolo politico della Roma barocca.

Ma qui si tratta del Comitato rivoluzionario per l’università italiana (in esilio): un gruppo di «”giovani” studenti e ricercatori precari » ritrovatisi a Berlino, nell’estate del 2010. Sono quindi laureandi, neolaureati, dottorandi, assegnisti, contrattisti, tirocinanti, supplenti: «”rappresentano” l’intero sottobosco di ciò che resta del sistema di Pubblica Istruzione italiano». Soprattutto sono stati dentro l’Onda anomala del 2008, «un movimento orizzontale e diffuso, che critica i dispositivi tradizionali della rappresentanza politica», motivo per cui mantengono l’anonimato. Esplicitano immediatamente le loro fonti di ispirazione, che in primis sembrano essere coloro i quali, da oltre un decennio, hanno fatto del nome collettivo uno stile di azione letteraria, Wu Ming (fu Luther Blissett). A cui aggiungono: Hannah Arendt, Guy Debord, Gilles Deleuze, Luciano Ferrari Bravo, Felix Guattari, Karl Marxi; nonché il collettivo Tiqqun, dal quale hanno mutuato la formula aforistica dei «comunicati politici » e il conclusivo grande gioco della guerra civile. Nel libro aleggia uno spirito di eccessiva responsabilità, perché il rapporto con i «nostri avi asserviti» e l’urgenza di «essere noi i genitori» devono andare a braccetto con l’attraversamento di Berlino in cerca di quella bohème postmoderna che agita club culture e performance artistiche e non solo di cimiteri e Staatsbibliothek! Ad ogni modo l’andamento dell’intero pamphlet oscilla tra scanzonato assalto situazionista ed embrionale apertura di dibattito sul rilancio del movimento universitario in Italia: quasi delle microscopiche Lettere mitteleruropee, anziché persiane, di agit prop in formazione. E la matura caparbietà del movimento si è incaricata di rilanciare il suo potenziale di protagonismo pubblico nelle piazze autunnali e invernali, dentro il sommovimento europeo della conoscenza: dalla Spagna, all’Inghilterra; dalla Grecia, alla Francia. Con il senno di poi possiamo dire che gli autori di questo pamphlet hanno colto nel segno. Sono stati cioè facili profeti e soggetti attivi di una nuova presa di parola collettiva, che transitoriamente era stata soffocata dalla densa coltre di anestetico sociale indotta dal berlusconismo di fine Impero e dal suo sciocco fratello gemello giustizialista. Questo libretto ha il pregio di dispiegare al suo interno un doppio binario di sensibilità: da una parte «diventare responsabili nei confronti della nostra generazione », per avviare un percorso di lotte «che porti i nuovi soggetti lavorativi, nati dalla crisi del modello fordista, ad assumere una posizione politica egemone all’interno del conflitto sociale». È la possibilità di spingersi fino a una nuova semantica della liberazione dal lavoro e dallo «stagismo di Stato». Dall’altra apre la riflessione sul movimento dei beni comuni, per ragionare sulle dimensioni del vivere in comune come radicale alternativa all’individualismo possessivo e al parassitismo di Stato. Oltre il dominio della dicotomia pubblico/ privato, su cui si fonda la modernità giuridica del comando e dell’obbedienza, c’è la ricchezza della messa in comune. E centrale diviene la conoscenza, che non è certo «un prodotto di fabbrica (una merce), ma il risultato di un’attività collettiva gratuita, di un più ampio tessuto di relazioni umane». Da qui si dovrebbe cominciare a ragionare se davvero si volesse proporre un’idea di società radicalmente antagonistica alla ottusa alternativa berlusconismo/ legalitarismo, che le forze politico-culturali dominanti ci propinano con insopportabile retorica. Il movimento della conoscenza, che da almeno un decennio attraversa carsicamente la nostra società, appare tuttavia in credito di reali interlocutori, nella società, come nelle istituzioni. Il suo «successo» nel sentire comune, diviene un «insuccesso » rispetto all’isolamento politico-istituzionale e alle sconfitte legislative, fatte di «riforme» del tutto inadeguate, quando non ulteriormente peggiorative di uno status quo insopportabile; dai riformatori del 3+2 di centro-sinistra (Zecchino-Berlinguer) al finto efficientismo nordista di Moratti e all’ottusa retorica pseudo-meritocratica diMariastella Gelmini. E quando il movimento ripiega in se stesso, avviene il peggio, col rigurgito di frammentazione, autoreferenzialità, passatismo identitario. Ma quand’è che un movimento vince? L’acronimo con cui si firmano è volutamente parodistico della Crui, la «Conferenza dei Rettori delle Università Italiane»: associazione finanziata dalle università pubbliche che vi aderiscono e che appare come un autoreferenziale club, accasatosi nel cuore del triangolo politico della Roma barocca. Ma qui si tratta del Comitato rivoluzionario per l’università italiana (in esilio): un gruppo di «”giovani” studenti e ricercatori precari » ritrovatisi a Berlino, nell’estate del 2010. Sono quindi laureandi, neolaureati, dottorandi, assegnisti, contrattisti, tirocinanti, supplenti: «”rappresentano” l’intero sottobosco di ciò che resta del sistema di Pubblica Istruzione italiano». Soprattutto sono stati dentro l’Onda anomala del 2008, «un movimento orizzontale e diffuso, che critica i dispositivi tradizionali della rappresentanza politica», motivo per cui mantengono l’anonimato. Esplicitano immediatamente le loro fonti di ispirazione, che in primis sembrano essere coloro i quali, da oltre un decennio, hanno fatto del nome collettivo uno stile di azione letteraria, Wu Ming (fu Luther Blissett). A cui aggiungono: Hannah Arendt, Guy Debord, Gilles Deleuze, Luciano Ferrari Bravo, Felix Guattari, Karl Marxi; nonché il collettivo Tiqqun, dal quale hanno mutuato la formula aforistica dei «comunicati politici » e il conclusivo grande gioco della guerra civile. Nel libro aleggia uno spirito di eccessiva responsabilità, perché il rapporto con i «nostri avi asserviti» e l’urgenza di «essere noi i genitori» devono andare a braccetto con l’attraversamento di Berlino in cerca di quella bohème postmoderna che agita club culture e performance artistiche e non solo di cimiteri e Staatsbibliothek! Ad ogni modo l’andamento dell’intero pamphlet oscilla tra scanzonato assalto situazionista ed embrionale apertura di dibattito sul rilancio del movimento universitario in Italia: quasi delle microscopiche Lettere mitteleruropee, anziché persiane, di agit prop in formazione. E la matura caparbietà del movimento si è incaricata di rilanciare il suo potenziale di protagonismo pubblico nelle piazze autunnali e invernali, dentro il sommovimento europeo della conoscenza: dalla Spagna, all’Inghilterra; dalla Grecia, alla Francia. Con il senno di poi possiamo dire che gli autori di questo pamphlet hanno colto nel segno. Sono stati cioè facili profeti e soggetti attivi di una nuova presa di parola collettiva, che transitoriamente era stata soffocata dalla densa coltre di anestetico sociale indotta dal berlusconismo di fine Impero e dal suo sciocco fratello gemello giustizialista. Questo libretto ha il pregio di dispiegare al suo interno un doppio binario di sensibilità: da una parte «diventare responsabili nei confronti della nostra generazione », per avviare un percorso di lotte «che porti i nuovi soggetti lavorativi, nati dalla crisi del modello fordista, ad assumere una posizione politica egemone all’interno del conflitto sociale». È la possibilità di spingersi fino a una nuova semantica della liberazione dal lavoro e dallo «stagismo di Stato». Dall’altra apre la riflessione sul movimento dei beni comuni, per ragionare sulle dimensioni del vivere in comune come radicale alternativa all’individualismo possessivo e al parassitismo di Stato. Oltre il dominio della dicotomia pubblico/ privato, su cui si fonda la modernità giuridica del comando e dell’obbedienza, c’è la ricchezza della messa in comune. E centrale diviene la conoscenza, che non è certo «un prodotto di fabbrica (una merce), ma il risultato di un’attività collettiva gratuita, di un più ampio tessuto di relazioni umane». Da qui si dovrebbe cominciare a ragionare se davvero si volesse proporre un’idea di società radicalmente antagonistica alla ottusa alternativa berlusconismo/ legalitarismo, che le forze politico-culturali dominanti ci propinano con insopportabile retorica. Il movimento della conoscenza, che da almeno un decennio attraversa carsicamente la nostra società, appare tuttavia in credito di reali interlocutori, nella società, come nelle istituzioni. Il suo «successo» nel sentire comune, diviene un «insuccesso » rispetto all’isolamento politico-istituzionale e alle sconfitte legislative, fatte di «riforme» del tutto inadeguate, quando non ulteriormente peggiorative di uno status quo insopportabile; dai riformatori del 3+2 di centro-sinistra (Zecchino-Berlinguer) al finto efficientismo nordista di Moratti e all’ottusa retorica pseudo-meritocratica diMariastella Gelmini. E quando il movimento ripiega in se stesso, avviene il peggio, col rigurgito di frammentazione, autoreferenzialità, passatismo identitario. Ma quand’è che un movimento vince? Gli autori del libello ricordano che nell’autunno 2008 a La Sapienza campeggiava uno striscione: «i movimenti sono fatti per essere sconfitti. Viva l’occupazione!» A noi lettori empatici piace pensare e agire in modo da «non farsi trovare sulla traiettoria del Potere, nel giocare la partita inventando nuove regole», nel praticare «la schivata », facendola sul posto, spesso in surplace e con una banda di compagni con cui condividerla. Organizzandosi per allargare la nostra banda, conquistare reddito, autonomia e una degna vita in comune: pronti per la prossima, questa volta perfetta, onda anomala.

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