La Consulta chiude il caso Dorigo

Con la sentenza n. 113, depositata  lo scorso 7 aprile, la Corte  costituzionale ha dichiarato  l’illegittimità  costituzionale dell’art.  630 del codice di procedura penale,  nella parte in cui non prevede un caso  di revisione della pronuncia di  condanna, al fine di conseguire la riapertura  del processo per conformarsi  ad una sentenza definitiva della  Corte europea dei diritti dell’uomo.

Con la sentenza n. 113, depositata  lo scorso 7 aprile, la Corte  costituzionale ha dichiarato  l’illegittimità  costituzionale dell’art.  630 del codice di procedura penale,  nella parte in cui non prevede un caso  di revisione della pronuncia di  condanna, al fine di conseguire la riapertura  del processo per conformarsi  ad una sentenza definitiva della  Corte europea dei diritti dell’uomo.

 E’ una pronuncia di fondamentale  importanza, che chiude, almeno per  il momento, il dibattito sull’individuazione  del rimedio idoneo a garantire  un’efficacia interna alle decisioni  europee.  La vicenda è quella di Paolo Dorigo,  condannato per l’attentato alla  basemilitare di Aviano del 1993. Dopo  la condanna definitiva, Dorigo si  era rivolto alla Commissione europea  dei diritti dell’uomo, la quale aveva  accertato il carattere «non equo»  del processo celebrato nei suoi confronti,  dal momento che la condanna  era stata pronunciata sulla base  delle dichiarazioni rese da tre coimputati  che, in dibattimento, si erano  avvalsi della facoltà di non rispondere.  La mancanza di un meccanismo  interno di riapertura del processo a  seguito della decisione europea induceva  la Corte di cassazione a dichiarare  l’inefficacia dell’ordine di carcerazione  emesso nei confronti diDorigo,  disponendone la liberazione. Parallelamente,  Dorigo aveva inoltrato  un’istanza di revisione del processo,  che conduceva ad una prima questione  di legittimità costituzionale  dell’art. 630 c.p.p. La Consulta, pur  dichiarando l’infondatezza della questione  (sentenza n. 129 del 2008), invitava  il legislatore ad adeguarsi alle  sentenze della Corte europea dei diritti  dell’uomo che riscontrino violazioni  ai principi sanciti dall’art. 6 della  Corte europea dei diritti dell’uomo  (Cedu).  Manell’ambito del giudizio di revisione  il dubbio di costituzionalità veniva  riproposto sotto un diverso profilo:  quello della lesione dell’art. 117  Cost. in riferimento all’art. 46 Cedu,  che sancisce l’obbligo degli Stati contraenti  di conformarsi alle sentenze  definitive della Corte europea, rimuovendo  ogni effetto contrario. E proprio  in tale ottica la questione è stata  accolta dalla Corte costituzionale,  che, contribuendo al definitivo superamento  di certi miti che fino a pochi  anni fa sembravano ancora immutabili,  ha stabilito che l’obbligo di  conformarsi alle sentenze pronunciate  dalla Corte di Strasburgo non possa  dirsi soddisfatto con la concessione  di una congrua soddisfazione pecuniaria,  ma sia necessaria la riapertura  del processo.  Sicuramente apprezzabile quale  epilogo della vicenda, la sentenza  costituzionale rischia però di sollevare  qualche dubbio interpretativo.  La revisione, infatti, è un mezzo  di impugnazione straordinario,  mediante il quale è possibile rimuovere  pronunce irrevocabili di condanna  quando, alla luce di circostanze  conosciute successivamente al  giudicato, esse appaiono frutto di ingiustizia.  In relazione alle violazioni  della Cedu, però, non si può parlare  di un accusato condannato ingiustamente,  ma di un imputato processato  ingiustamente, e in questo modo  la revisione appare eccentrica rispetto  alle finalità da raggiungere.  Imoniti rivolti dalla Corte costituzionale  al legislatore imporrebbero,  pertanto, di rinvenire strumenti  diversi, idonei a garantire effettività  alle decisioni della Corte europea. A  questo riguardo, un rimedio efficace  potrebbe essere rinvenuto in una sorta  di revisione «speciale», e ciò per  una duplice serie di ragioni.  Da un lato, la difficoltà di tipizzare  le difformità riscontrabili dalla  Corte europea rischia di trasferire sul  giudice interno una complessa – e  non agevole – opera di individuazione  dei casi in cui la violazione della  Convenzione sia tale da determinare  l’esito del giudizio. Dall’altro, potrebbe  rivelarsi necessaria la rinnovazione  degli atti a contenuto probatorio,  la cui pregressa assunzione fosse stata  accertata come iniqua (nel caso  Dorigo, ad esempio, l’escussione in  contraddittorio dei coimputati).  Un simile epilogo, invece, non  potrà mai scaturire dalla sentenza n.  113 del 2011, dal momento che la revisione  «ordinaria» non spiega, di  per sé, effetti invalidanti sul materiale  di prova raccolto nel precedente  giudizio, dal momento che le «nuove  prove», che devono dimostrare la necessità  del proscioglimento, vanno  apprezzate da «sole o unite a quelle  già valutate».

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