Gli angeli neri dell’anarchia

Manlio Cancogni lo conosciamo soprattutto come g e n i a l e scrittore, fin dalle pagine di Una parigina (1960), La linea del Tomori (à 66), Il ritorno (à 71) o anche l’intimo Perfidi inganni, appena uscito da Elliot.

Manlio Cancogni lo conosciamo soprattutto come g e n i a l e scrittore, fin dalle pagine di Una parigina (1960), La linea del Tomori (à 66), Il ritorno (à 71) o anche l’intimo Perfidi inganni, appena uscito da Elliot.

Ma con la storia degli anarchici italiani da Pisacane ai circoli di Carrara, che ci ripropone nel volume Gli angeli neri (Mursia, pp. 144, e 14), Cancogni— «oggi allegramente oltre i novanta» (come precisa Beppe Benvenuto nella prefazione) — ci offre un singolare, vivacissimo viaggio fra i personaggi chiave e gli episodi più eloquenti, che hanno caratterizzato il movimento libertario di casa nostra. E lo fa cominciando da Carlo Pisacane, pronto a solidarizzare anche con i detenuti del penitenziario di Ponza, perché— se erano diventati «ladri, rapinatori, assassini» — la colpa andava pur sempre «alla società» che con le sue ingiustizie aveva negato loro «i più elementari diritti alla vita» . Importa poco che poi Pisacane finisse— come sappiamo fin dai banchi di scuola— con la sfortunata spedizione di Sapri. A Cancogni interessa molto di più condurci a ripercorrere le vicende di questi «angeli neri» , che non coinvolgevano solo volti dai nomi ben noti (come Carlo Cafiero o Amilcare Cipriani, Francesco Saverio Merlino o Pietro Gori, Gino Lucetti o Errico Malatesta) ma trovavano consensi in settori diversi dell’opinione pubblica, anche se spesso — sottolinea Cancogni— certe loro proteste sfociavano «nel comico e nel pittoresco» , perché malgrado gli arresti, le evasioni, gli spari, a prevalere troppe volte erano «i toni minacciosi, i cappellacci e i ferraioli neri, i fiocchi anch’essi neri, le barbe e i pizzi mefistofelici» . Intendiamoci bene: con la sua prosa avvincente Cancogni è capace di suscitare la nostra spontanea, quasi immediata simpatia, appena ci mette davanti, per esempio, la figura di Bakunin «gigantesco, barbuto, gonfio» con quegli «occhi piccoli di scoiattolo» che si accendevano «di ammiccanti scintille» , oppure ci spiega che Bresci, l’assassino di Umberto I nel luglio del 1900, non era affatto quel «povero squilibrato» , come avevano fatto credere le cronache di allora, ma era «un uomo sano, intelligente, soddisfatto» , ben consapevole del gesto (pur riprovevole) che aveva compiuto. Né il discorso cambia, appena incontriamo, nell’estate del 1914, la famosa «Settimana Rossa» , con epicentro fra Ancona e Bologna, che aveva visto manifestazioni «sovversive» di un’ampiezza senza precedenti. Il problema vero, però, è un altro. Questo continuo aut aut fra autorità e libertà, destinato a costituire «il dilemma ispiratore degli eroici furori anarchici» (come non esita a definirli senza cautelosi eufemismi), diventa per Cancogni un’occasione propizia— direi, «pedagogica» — per indurre il lettore non solo ad appassionarsi di certi aneddoti, ma soprattutto a riflettere che al giorno d’oggi, anziché riconoscere qualche valore, ancora attuale, all’anarchia e ai suoi miti libertari, dobbiamo renderci conto del ruolo, della funzione, dell’importanza spettante allo Stato, a ogni Stato. Senza dimenticare che se nella nostra realtà contemporanea sono cresciuti, addirittura troppo, certi invasivi poteri statali, adesso abbiamo un bisogno enorme di recuperare quel senso di autorità, soprattutto se espressa «dal basso» , che ci sottragga alle suggestioni dei cattivi maestri e ci insegni il difficile compito di un autentico vivere democratico.

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