Erofeev, il killer della letteratura socialista

Il prossimo romanzo: «Una sfida, una storia a tante voci in cui ho liquidato il male»

Il prossimo romanzo: «Una sfida, una storia a tante voci in cui ho liquidato il male»

«Dmitri Anatolevic, che ne dite di partecipare al mio programma?» . Così, a una cena, lo scrittore russo Victor Erofeev invita il presidente Medvedev ad «Apocrifo» , il popolare talkshow televisivo che conduce da 10 anni ogni martedì alle 22.40 per 40’e che assicura al canale nazionale «Cultura» dai 5 ai 10 milioni di spettatori. Apocrifo, come l’autore. Affrontare Erofeev, che sarà al Salone del libro di Torino a maggio con altri connazionali per rappresentare la Russia, Paese ospite dell’edizione 2011, esige un breve manuale d’istruzione per l’uso. Nato sotto Stalin, dissidente con Breznev, uomo libero grazie a Gorbaciov, costantemente in bilico nell’era Putin. Il padre Vladimir, prima interprete di Stalin, poi assistente di Molotov e infine diplomatico di alto rango a Parigi e a Vienna, patì in silenzio le intemperanze rivoluzionarie del figlio, perdendo ogni privilegio (la storia è narrata nell’affascinante romanzo autobiografico Il Buon Stalin, Einaudi, 2009). Erofeev è l’involontaria incarnazione dello stemma di stato: l’aquila a due teste partecipe di due mondi. La dorata infanzia stalinista trascorsa a Ovest lo seduce con le sue dolcezze e la sua cultura; il suo patrimonio genetico e una giovinezza moscovita vissuta all’insegna dell’intransigenza ne riportano il baricentro verso Est. Il suo vissuto e la lucidità con cui decifra le situazioni a oriente dell’ex cortina di ferro lo rendono particolarmente gradito alla stampa occidentale, dall’ «Herald Tribune» al «Frankfurter Allgemeine» , dal «New York Times» al «New Yorker» , che lo utilizzano come esegeta supremo di ciò che avviene a un livello profondo nel suo Paese. Per tutto questo e per aver curato lui stesso due antologie dedicate alla letteratura russa contemporanea, gli chiediamo di orientarci nell’attuale panorama letterario. «Viviamo nel periodo meno fecondo per le lettere russe dal XVIII secolo, racconta. In Russia rimangono tre pilastri, Vladimir Sorokin, Victor Pelevin…» e, bien sûr, lui medesimo. Ai loro esordi, Erofeev e Sorokin si sono imposti come serial killer della letteratura socialista prostituita al potere ideologico, ma anche di molta letteratura anteriore alla rivoluzione colpevole di non aver fornito ai lettori gli anticorpi per comprendere e affrontare il genocidio spirituale del realismo sovietico, a conclusione del quale rimane solo un intimo e agghiacciante ricordo del male: «Del resto persino il nostro Rinascimento si chiama Ivan il Terribile. Sorokin ha scritto una grande anti-utopia, dal titolo La giornata di un opricnik, ovvero le guardie pretoriane di Ivan, solo che “la giornata”di Sorokin si svolge nel 2028: il futuro della Russia è il suo passato. Per l’opricnik la crudeltà è un’arte. I riferimenti ai siloviki, gli uomini dell’ex Kgb che popolano le stanze del Cremlino e non disdegnano l’uso della forza (da cui deriva appunto il loro soprannome, ndr), si sprecano. Ma loro, i siloviki, hanno acquistato il libro in massa per compiacersi della loro caricatura. Sorokin è immenso nell’imitazione degli stili. Nell’opricnik i suoi personaggi usano il gergo del XVI secolo. In altre situazioni usa lo stile burocratico del realismo socialista; in altri ancora fa il verso alla grande letteratura del passato. Vladimir ha pubblicato un nuovo romanzo: Metel’ (“La tempesta di neve”). È un paradigma della letteratura russa. Potrebbe essere ambientato prima della rivoluzione oppure ai nostri giorni. È la storia del dottor Garin (Zivago?) che decide di salvare i malati che giacciono in un villaggio. Parte ma incontra degli ostacoli: la neve, la tempesta, poi si innamora, si ubriaca e la sua meta si allontana sempre più… molto pessimista» . Comune a tutti e tre gli scrittori è l’aspirazione a trattare senza tabù e in modo non conformista, ricorrendo anche al burlesque virtuoso e alla farsa crudele, i grandi temi sociali, da quelli morali a quelli dell’identità nazionale. Il loro stile ironico e paradossale prevede anche di smontare e rimontare tutta la propria storia e letteratura, utilizzando in modo distorto gli stili, situazioni e personaggi che il pubblico ha già collocato, nel bene o nel male, nel mito. Stalin, Ivan il Terribile, ma anche Puskin (Metel’ è anche il titolo di un racconto del poeta), Zivago, Tolstoj… Quest’ultimo, o meglio la sua versione rivisitata, è il protagonista dell’ultimo romanzo di Victor Pelevin, il più giovane dei tre, dal titolo T, l’iniziale dell’autore di Guerra e Pace. «Ambientato nella Russia di cent’anni fa, il conte T, è un eroe metafisico, difensore dei deboli contro la violenza dello Stato e della Chiesa. È un maestro delle arti marziali sovrannaturali: sconfigge il nemico senza neppure toccarlo. Come il vero Tolstoj vuole raggiungere i saggi del monastero di Optina Pustyn. A Mosca è già un grande successo» . Negli ultimi anni, i libri dei due Victor e di Sorokin hanno subito l’ostracismo dei gruppi fortemente nazionalisti che invitavano la popolazione a rendere le opere dei tre, accusati di essere nemici della nazione. «Non so come andranno le elezioni del prossimo anno. Personalmente sostengo Medvedev, che poi non ho più invitato in trasmissione perché preferisco non essere in combutta con il Cremlino. Ma in Russia il nazionalismo è alle stelle, e per molti Putin, il cui ritorno pavento, è un moderato» . E Erofeev, cos’ha in cantiere? Riluttante, forse per scaramanzia, non vuole parlare del nuovo romanzo che sarà pronto fra un paio di mesi. Gli sfuggono alcune informazioni: «Ho liquidato il male, che è stato la matrice di molti miei racconti. Nel nuovo libro, tutto si svolge nel centro di Mosca, vicino a casa. 60%è pura invenzione, 40%si riferisce a personaggi e situazioni realmente esistenti. La storia è intelligibile, scritta in un linguaggio trasparente. Il titolo è un neologismo, mio personale, che è alla base delle conversazioni. Solo che passando di bocca in bocca assume un significato diverso e anche una sostanza grammaticale diversa: da alcuni è utilizzato come un sostantivo, da altri come un aggettivo, da altri ancora come un avverbio… una vera sfida. Ma per il lettore non ci saranno difficoltà di comprensione. Alla base ci sono questioni esistenziali che si sviluppano seguendo una trama con l’aiuto di varie voci» . È tutto quello che riusciamo a estorcere. In attesa del romanzo russo che possa nuovamente affascinare l’Occidente, forse è la musica che ha già offerto l’Opera lirica del disgelo. Sempre per mano di Erofeev. Nell’ormai lontano aprile 1992, all’Opera di Amsterdam fu allestita la prima di Vita con un idiota, dal racconto omonimo dell’autore «apocrifo» scritto nel 1980, in piena dissidenza (pubblicato in Italia da Salani nel 2010). Allegoria dell’oppressione sovietica e della vita di ognuno tout court, è la storia di «Io» che, per motivi sconosciuti anche a lui, è condannato a una pena singolare che accoglie con sollievo: scegliersi un idiota e portarselo a casa. Si reca in manicomio, individua l’idiota dal volto intelligente, se lo porta a casa dove lo aspetta la moglie. La sua vita è stravolta. Una serie indicibile di efferatezze culminano con l’assassinio della moglie e dell’idiota, che nel frattempo si erano innamorati. «Io» è portato in manicomio in attesa di essere scelto da qualcun altro. La prima esecuzione dell’opera fu realizzata da cinque personalità russe note a livello mondiale: musiche di Alfred Schnittke, direzione di Mstislav Rostropovich, costumi e scenografie dell’artista Ilya Kabakov, regia di Boris Pokrovsky (regista del Bolshoi dal ’ 43 all ’ 82), libretto di Victor Erofeev. Il regista decise nella prima versione di fornire all’idiota le sembianze di Lenin: il folle dall’apparenza colta che si infiltra in una nazione e la sconvolge. L’azione è raccontata dal coro dei matti. Alla prima in Olanda era presente la regina Beatrice, che scioccata dagli avvenimenti che si svolgevano sul palcoscenico, dopo il primo atto rompe il protocollo per raggiungere Erofeev e manifestargli ammirazione e grandissimo sconcerto: «Monsieur, ho temuto di non reggere alle vicende del primo atto» . «Maestà, mi dia retta, si tenga forte per il secondo»

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