Valerio Verbano, diciannovenne militante dell’Autonomia operaia, fu assassinato a Roma il 22 febbraio 1980 da un commando di tre fascisti armati di pistola e incappucciati, che irruppero alle 12.30 del mattino nella sua abitazione, in via Monte Bianco, al quartiere Montesacro.
Valerio Verbano, diciannovenne militante dell’Autonomia operaia, fu assassinato a Roma il 22 febbraio 1980 da un commando di tre fascisti armati di pistola e incappucciati, che irruppero alle 12.30 del mattino nella sua abitazione, in via Monte Bianco, al quartiere Montesacro.
Legarono e imbavagliarono i genitori e attesero che rientrasse dal liceo. Alle 13.40, dopo una furibonda colluttazione all’ingresso dell’appartamento, Valerio Verbano fu colpito da un proiettile calibro 38 esploso alle sue spalle. Morirà alle 14.05 al pronto soccorso del policlinico Umberto I. I suoi aguzzini non furono mai scoperti nonostante una rivendicazione a firma «Nar, Comandi Thor, Balder, Tir» e una telefonata all’agenzia Ansa, la sera stessa, con particolari al momento non ancora conosciuti. Dopo la pubblicazione, nel trentesimo anniversario, di Sia folgorante la fine (Rizzoli), scritto da Carla Verbano, la mamma di Valerio, insieme al giornalista Alessandro Capponi, con in fila ipotesi e sospetti maturati nella lunga attesa di un qualche sprazzo di verità, ora è la volta di due volumi usciti quasi in simultanea: Valerio Verbano, Una ferita ancora aperta. Passione e morte di un militante comunista, di Marco Capoccetti Boccia (Castelvecchi, pp. 380, euro 19,50), sulla vicenda maanche sulla figura politica del giovane, e Valerio Verbano. Ucciso da chi, come, perché di Valerio Lazzaretti, un testo, per diverse ragioni, assai prezioso. La galassia neofascista L’autore di quest’ultimo libro, un archivista impegnatosi inizialmente a raccogliere materiale per un documentario Rai, ha qui condotto una vera e propria controinchiesta. Una sorta di «processo indiziario» che ha visto la luce poco prima che filtrasse, a febbraio, la notizia dell’apertura di nuove indagini da parte della Procura di Roma. Grazie alle testimonianze di alcuni ex militanti di destra e ai moderni programmi di grafica informatica si sarebbe, infatti, riusciti finalmente a ricostruire alcuni volti. D’altro canto, la madre di Verbano, che aprì la porta agli attentatori, descrisse l’identikit di uno di loro prima che si calasse il passamontagna, mentre un vicino di casa li incrociò sul portone mentre fuggivano. Si è ancora in attesa, invece, degli esiti circa il possibile rinvenimento di tracce biologiche sui reperti scampati nel maggio 1989 alla frettolosa distruzione ordinata dal giudice istruttore Claudio D’Angelo. In casa Verbano gli assassini persero un bottone e abbandonarono diversi oggetti: un rotolo di carta gommata, un berretto, un passamontagna, un guinzaglio, un paio di occhiali da sole e una pistola 7.65 con silenziatore artigianale. Ed è in particolare su quel silenziatore e sul nastro adesivo che l’avvolgeva, emerso miracolosamente da un polveroso anfratto dell’ufficio corpi di reato del Tribunale di Roma, che si sta cercando di individuare chi potesse averlo maneggiato. Ultimamente è anche ricomparso dagli archivi dei carabinieri il voluminoso dossier che fu sequestrato a Valerio Verbano, dopo un suo arresto, avvenuto tre mesi prima l’omicidio: 379 fogli dati per spariti, scritti quasi tutti a mano, con notizie su centinaia di estremisti di destra, suimilitanti che gravitavano nella lotta armata e sui finanziamenti che ricevevano. Sul futuro delle indagini non possiamo dire nulla. Diverse le ipotesi in campo: forse un omicidio non preventivato, sfuggito di mano, in origine un tentativo di «interrogatorio » per scoprire gli informatori di Valerio, o una vendetta, magari legata alla morte di Stefano Cecchetti, un giovane colpito a pistolettate nel gennaio 1979 davanti a un bar del quartiere Talenti frequentato da elementi di destra. Lo stesso Valerio condannò l’episodio intervenendo in diretta a Radio Onda Rossa. In questo quadro il libro di Lazzaretti non si limita a ripercorre le vecchie inchieste, a formulare ricostruzioni o a scavare circa i possibili moventi. Si addentra in profondità nel contesto neofascista romano dell’epoca, fra il 1977 e il 1982, analizzando figure, gruppi e «linee politiche» spesso differenti se non in contrasto fra loro. Un’analisi accurata che per alcuni versi getta una luce nuova su talune dinamiche che caratterizzarono il terrorismo nero nella capitale. Conflitti interni I Nar, apparsi per la prima volta il 23 dicembre 1977, rappresentarono un’etichetta, una sorta di logo, dietro al quale operarono più gruppi armati con ipotesi diverse: chi puntava ad alzare il livello dello scontro nei confronti di polizia e magistratura, a imitazione delle Brigate rosse, e chi pensava di continuare a colpire gli avversari storici di sinistra. Lo studio non superficiale dei comunicati diffusi all’epoca dai Nar, in particolare dopo l’assassinio il 23 giugno 1980 del giudice Mario Amato, permette di cogliere questi contrasti, a volte frontali, ma anche individuare le diverse aree che componevano l’arcipelago di estrema destra. Da un lato il gruppo di Valerio Fioravanti, Gilberto Cavallini e Francesca Mambro, propenso ormai a ingaggiare una lotta frontale contro lo Stato, e dall’altro le strutture clandestine di Avanguardia nazionale e Terza Posizione. Da qui anche la scelta dei primi di ritenere chiusa l’esperienza dei Nar per connotarsi attraverso nuove sigle come i Goad, i Gruppi organizzati per l’azione diretta, mentre andavano proliferando altri gruppetti inclini principalmente a colpire a sinistra. Su questo versante anche la rivista Quex, animata da alcuni detenuti di destra (Mario Tuti, Edgardo Bonazzi, Angelo Izzo, Francesco De Min e altri), con Fabrizio Zani, tra i fondatori di Ordine nero, a far da terminale all’esterno, tesa, tra l’altro, a ispirare e orientare le azioni armate che venivano condotte. In un editoriale del marzo 1980 comparve anche una spiegazione dell’omicidio di Valerio Verbano, accostato ai giovani che sparavano «nei bar ’di destra’ a casaccio» per «uccidere i ragazzini di 16 anni». Un’evidente falsità che ricalcava il movente già apparso nella rivendicazione telefonica. Il quadro di attentati e violenze che emerge da questa ricostruzione comprova, anche statisticamente, come gli agguati fascisti fossero di gran lunga superiori alle ritorsioni di sinistra. Un dato storico. Come il fatto che per i fascisti «i processi andavano abbastanza bene, con piccole condanne e terminavano in brevi periodi», come ebbe a dichiarare Cristiano Fioravanti, un tempo nei Nar. In quegli anni non furono certamente casuali le disattenzioni della magistratura. Anche nel caso Verbano.
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