È nata del 2006 a Cuneo la Fondazione dedicata allo scrittore e partigiano. Un modo per preservare la memoria e promuovere la cultura che ispirò la resistenza e la scelta antifascista. Un luogo che oggi ferve di progetti
È nata del 2006 a Cuneo la Fondazione dedicata allo scrittore e partigiano. Un modo per preservare la memoria e promuovere la cultura che ispirò la resistenza e la scelta antifascista. Un luogo che oggi ferve di progetti
Acquieta l’animo stare seduti sui divani del soggiorno della casa di Nuto Revelli, dove oggi ha sede la Fondazione a lui intitolata – della cui attività mi parlano Luigi Schiffer e Chiara Gribaudo, rispettivamente consigliere di amministrazione e responsabile operativa della Fondazione. La casa è rimasta esattamente com’era: l’ingresso, il soggiorno, lo studio.
Anche i libri nelle librerie sono riposti nello stesso ordine in cui li aveva riposti Revelli, e sono soprattutto libri (saggi e romanzi) sulla guerra e sulla Resistenza. Solo le stanze da letto sono state riadattate alle nuove esigenze: la stanza di Nuto e di suamoglie Anna è stata adibita a contenere l’archivio, in corso di formazione, mentre la stanza del figlio Marco, oggi fra gli storici più profondi e lucidi del nostro Paese, ad ufficio. Ma anche qui sono rimasti i libri che c’erano.
Fuori, Cuneo è dolcemente assolata e diafana, l’aria è quella della primavera che sta iniziando. Poco lontano si vedono le montagne che tanta parte avevano avuto nella lotta partigiana e dalla strada arrivano pochi rumori: sono i rumori delle macchine che circolano su corso Nizza, dove Cuneo aveva festeggiato la Liberazione.
Tutto comunica grande pace, anche il modo d’essere e di parlare di Luigi Schiffer e Chiara Gribaudo. Di Revelli, Luigi era stato amico personale, mentre Chiara, molto giovane, aveva fatto appena in tempo a farsi autografare un suo libro.
Fisicamente Nuto Revelli non c’è più, è morto a ottantacinque anni nel 2004, ma c’è il suo spirito, che aleggia in queste stanze; e del resto, mi dice Schiffer, «l’ambiente dà l’idea degli incontri informali che in questa casa avevano luogo. Qui venivano moltissime persone a trovare Nuto, e lui aveva una grande capacità di parlare m aanche di ascoltare. L’appartamento
è del 1958 ed era stato progettato dallo studio degli architetti Morelli e Hutter, che a loro volta erano stati legati al Partito d’Azione. Era un progetto atipico, rispetto a quegli anni. Ad esempio non c’è il corridoio, come vedi. È una casa aperta e rappresenta bene lo spirito d’accoglienza di Nuto, che noi oggi cerchiamo di conservare».
Eppure, dietro questa pace che il luogo e le cose hanno ricevuto come per eredità traslativa, ci sono gli orrori della guerra, che Nuto Revelli aveva vissuto sulla propria pelle: la ritirata di Russia prima, la guerra partigiana dopo, e in mezzo un incidente gravissimo che gli aveva sfigurato il volto e l’aveva costretto a molti mesi di ospedale a Parigi, dove aveva subìto otto interventi chirurgici ricostruttivi. Da tutto ciò erano nati libri bellissimi: La guerra dei poveri, La strada del davai, L’ultimo fronte, altri ancora. Libri fra i «più belli e più cupi fra quanti siano usciti sulla guerra, sulla disfatta, sulla morte di centinaia dimigliaia di soldati mandati al macello dal fascismo, sul riscatto della Resistenza », come ha scritto Corrado Stajano (che fra l’altro figura fra i garanti della Fondazione, insieme a Claudio Pavone,
Giorgio Rochat, Roberto Cerati, e fino alla suamorte ancheMario Rigoni Stern). Attraverso questi libri, Revelli era stato capace di trasformare l’orrore in memoria, testimonianza, Storia raccontata: senza farsene sopraffare, ma al tempo stesso contribuendo in prima persona ad impedirne l’oblio e senza mai indulgere in retorica. Molto prima che la mancanza di retorica sulla guerra e sulla Resistenza divenisse, com’è diventata negli ultimi anni, una formula ipocrita e strumentale al servizio di interessi politici contingenti, utile solo a cercare di rimettere tutto in discussione, di confondere le acque.Ma poi forse il libro piùmemorabile di Nuto Revelli è Il mondo dei vinti, che fra tutti è quello che con la guerra e la Resistenza è in rapporto meno diretto. Una specie di «enciclopedia contadina del Novecento, le vallate cuneesi come l’Italia, come il mondo » (per usare di nuovo le parole di Stajano), risultante dalla trascrizione delle testimonianze di centinaia di contadini di pianura, di collina e di montagna che Revelli, nel corso di molti anni, fra i sessanta e i settanta del secolo scorso, aveva pazientemente e tenacemente intervistato (il sabato e la domenica, nel tempo che gli rimaneva dall’attività imprenditoriale di commercio nel ferro svolta per il resto della settimana), registrandoli su un magnetofono. Un libro di raro valore documentaristico ma anche di vera poesia, persino nella cadenza e nella musicalità delle frasi. Oggi Nuto Revelli sopravvive appunto anche attraverso la Fondazione, costituita su iniziativa della famiglia nel 2006, cui si affianca l’attività parallela dell’Associazione
Mai Tardi (dal titolo di un altro libro dello stesso Revelli), nata poco dopo «perché la cerchia degli amici era molto vasta» – spiega Chiara Gribaudo – «e tutti volevano partecipare, come la natura di struttura chiusa della Fondazione non avrebbe consentito». Ma lo scopo principale della Fondazione e dell’Associazione, che operano a sostegno l’uno dell’altra e sono sostenute anche da contributi pubblici oltre che da finanziamenti privati (provenienti perlopiù da banche), non è semplicemente quello di preservare la memoria di Revelli bensì è quello più ampio – come si legge nello statuto della Fondazione – di promuovere la «cultura che ispirò la Resistenza e la scelta antifascista, in particolare del movimento di ‘Giustizia e Libertà’, con ogni iniziativa che ne favorisca la conoscenza, soprattutto tra i giovani, e la diffusione». L’attività è intensissima e multiforme: quasi una presentazione di un libro al mese, laboratori didattici (da cui sono scaturiti ad esempio concorsi letterari emultimediali destinati agli studenti e gemellaggi fra scuole), collaborazioni con l’università, organizzazione di mostre e di viaggi in luoghi d’interesse tematico, un concorso riservato ai «nuovi cittadini» (immigrati o figli di genitori immigrati) giunto quest’anno alla seconda edizione (e cui è possibile iscriversi fino al 30 giugno). Inoltre, è ancora in corso, curata da due archiviste di grande valore (una dedita al profilo storico, l’altra a quello antropologico) che avevano già lavorato agli archivi di Gobetti e di Bobbio, l’opera di archiviazione dell’enorme mole di materiale lasciato da Revelli: dal materiale che gli era servito alla scrittura dei libri, e su tutti al Mondo dei vinti (le centinaia di cassette, tutte le loro trascrizioni, gli appunti – «Nuto aveva un suo metodo preciso», osserva Schiffer), alle migliaia di lettere personali scambiate nell’arco di una vita con personaggi famosi e comuni. Alle lettere, ancora, dei soldati caduti o dispersi nella seconda guerra mondiale, salvate dal macero al quale le stava buttando lo Stato, che ne era in possesso perché gli erano state consegnate dalle famiglie per poter avviare le pratiche di pensionamento. Nuto Revelli aveva dovuto comprarle, per salvarle: «e pensa che vergogna» – commenta Schiffer, la cui famiglia era stata a sua volta segnata dalla guerra, accalorandosi – «che lo Stato non avesse avuto la sensibilità di conservarle. Si parla di patria, di identità, e si butta via il proprio patrimonio, la propria memoria».
Ma il progetto che più di ogni altra cosa sta impegnando la Fondazione e l’Associazione – e che a Luigi e Chiara, si vede, sta particolarmente a cuore, ed è facile capirli – è il recupero della borgata di Paralup, un villaggio di sedici baite completamente abbandonato, a 1.400 metri d’altezza sopra Cuneo. Paralup vuol dire «guardarsi dal lupo», nell’antico gergo dei pastori; e qui era nata la prima banda partigiana, ispirata al movimento antifascista «Giustizia e Libertà», all’indomani dell’ 8 settembre 1943: una banda di dodici persone, fra cui Duccio Galimberti, Dante Livio Bianco e Dino Giacosa. Paralup è dunque un luogo che appartiene alla Storia, ma la cui storia non è riducibile ai venti mesi di esperienza partigiana, perché a comporla – come ha scritto sulla rivista Lo straniero la storica Antonella Tarpino, che ai luoghi del ricordare ha dedicato anche uno splendido libro – Geografie della memoria – sono anche «le esistenze e resistenze quotidiane di più lungo periodo: nelle pietre portate a spalla o sui muli per erigere questi alpeggi, ora diroccati, nel legname sottratto ai boschi della montagna, negli antichi sentieri dei pascoli disegnati nei secoli si conservano le tracce di una cultura ai margini ». Insomma la storia delle baite di Paralup è innanzitutto una storia di «tante generazioni di vinti», come osserva ancora la Tarpino: gli stessi cui Revelli aveva dato voce nei suoi libri.
Il progetto di recuperare Paralup – nato da un’idea suggerita dal regista e scrittore Teo De Luigi in occasione della presentazione di un suo film su Duccio Galimberti, subito raccolta dalla Fondazione – è condotto da un gruppo di architetti perlopiù giovani (Daniele Regis, Valeria Cottino, Giovanni e Aldo Barberis e Dario Castellino) nell’intenzione di preservare invece il più possibile le tracce visibili delle rovine rimaste, fatte di pietra (attraverso una rispettosa integrazione del legno, quale elemento nuovo); e di recente ha ottenuto una menzione speciale nell’ambito di un importante premio internazionale (Konstruktiv) dedicato all’architettura alpina sostenibile a livello europeo. Le prime tre baite sono state già restaurate, ed è un progetto ambizioso e bellissimo: ridare vita alla borgata, farne sì un centro museale e turistico (perché vi sorgeranno fra l’altro un museo della Resistenza e una foresteria) e, per chi lo vorrà, un rifugio per la riflessione, ma farne anche un luogo che possa sostenersi da solo, dove si possa lavorare e vivere del proprio lavoro (ad esempio assegnandone le baite a dei pastori e creandovi un laboratorio caseario). Recuperare Paralup vuol dire allora – qui nelle parole di Marco Revelli, in un quaderno sul progetto pubblicato dalla Fondazione – «far rivivere un pezzo di montagna come testimone fisico di una memoria storica non ossificata». Da questo punto di vista Paralup è anche un simbolo, e un esperimento: perché Paralup è solo una delle tante borgate abbandonate del Cuneese cui la vita potrebbe essere ridata. Hanno ragione Luigi Schiffer e Chiara Gribaudo: «Dicono che non c’è posto per gli immigrati, ma questi luoghi non potrebbero essere una risorsa anche in questo senso, di reciproco aiuto?». Ma questa è già un’altra storia, che aspetta di essere vissuta e raccontata
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