«Il cielo è nero e pieno di stelle come un campo appena seminato»
«Il cielo è nero e pieno di stelle come un campo appena seminato»
«Dagli oblò vedevo le nuvole e le loro ombre leggere proiettate sulla lontana e cara Terra. Poi, guardando il cielo, si risvegliò in me il figlio del colcosiano: il cielo era nero, pieno di stelle, come un campo arato e seminato di fresco. Ero felice, ma c’era in me paura quando pensavo che m’era stato affidato questo ordigno cosmico, tesoro inestimabile costato tante fatiche e denaro al mio popolo» . Così Juri Gagarin, tra emozione e celebrazione, raccontava le sue impressioni di primo viaggiatore dello spazio. Era partito alle 9.07 del mattino sulla navicella Vostok (Oriente) da una base allora segretissima, Baykonur. Nella capitale sovietica nevicava quel 12 aprile 1961 di cinquant’anni fa e Radio Mosca aspettò 25 minuti dopo il lancio per leggere uno dei tre comunicati già preparati dal Kgb: gli altri due erano per un eventuale disastro. Compì un giro intorno alla Terra in 108 minuti e al rientro sfiorò davvero la tragedia perché dalla capsula sferica che lo ospitava non si staccò il modulo con i razzi usati in orbita. La navicella, squilibrata, si mise a roteare fuori controllo finché la vampata di calore sprigionata dall’impatto con l’atmosfera non disintegrò i lacci metallici. Solo allora il volo tornò tranquillo. Ma, di nuovo, dopo essersi eiettato dalla capsula a 7 mila metri, durante la discesa in paracadute, accidentalmente si apriva pure il paracadute di riserva e Juri temette che le corde si aggrovigliassero facendolo precipitare come un sasso. Per fortuna non accadde e mise piede su una terra arata del colcos Léninski Put, non lontano dal villaggio Smielkova, a sud-est della città di Engels. Gli si avvicinarono Anna Takhtarova, la sua bambina e un vitellino, tutti impauriti da questo uomo vestito di arancione con un casco bianco. Temevano fosse un altro americano piovuto dal cielo perché alla radio da mesi si parlava del pilota Gary Powers abbattuto da un missile mentre spiava con il suo aereo nero il territorio sovietico. Juri si tolse il casco e con un sorriso disse: «Sono uno di voi, un sovietico, e sono il primo uomo dello spazio. Avete un telefono, devo comunicare che sono arrivato sano e salvo» . Aveva 27 anni ed era stato scelto assieme ad altri 19 piloti tra 3.461 candidati. Il padre era carpentiere e lui aveva lavorato in una fonderia. Amava il volo ed entrò in aviazione. Come i suoi compagni non aveva timore di salire lassù nonostante i cinque test della capsula non fossero stati sempre un successo. A bordo c’erano cani, talvolta sacrificati, e sull’ultimo anche il manichino «Ivan Ivanovich» che faceva sentire la sua voce registrata. Serviva per collaudare le comunicazioni ma il respiro dei cani e le sue parole fecero nascere, anche da noi, tragiche leggende di vittime cosmiche. Erano gli anni dei misteri russi al di là della «cortina di ferro» . Con lo spazio, Mosca dimostrava la superiorità del sistema comunista e le missioni erano spesso offerte come celebrazione di eventi politici. Al volere del Cremlino, governato in quei momenti da Kruscev, si doveva piegare il progettista capo Sergei Korolev, il cui nome era segreto e non doveva essere pronunciato. «La data del lancio di Juri venne scelta da mio padre— ci raccontò Sergei Kruscev, figlio del leader e ingegnere spaziale— cambiando solo in quel caso le regole. Doveva partire nella ricorrenza del primo maggio ma coincideva con un disastro avvenuto a Baykonur sei mesi prima quando per l’esplosione di un razzo morirono 82 tecnici e alti comandi militari. Non voleva rischiare l’unione di una festa ad un eventuale altro disastro. Così si anticipò al 12 aprile» . Gagarin fu trasformato nell’ambasciatore del comunismo spedito nei continenti per raccontarne le glorie. Divenne famoso ma perse la felicità, e passato il tempo delle strette di mano cadde in depressione. Gli impedirono di tornare nello spazio e il 27 marzo 1968 si schiantava al suolo durante un banale volo d’addestramento in compagnia di un mitico pilota collaudatore. La nebbia che quel giorno rendeva invisibile la zona della tragedia ancora avvolge la fine di una vita che fece sognare un nuovo futuro.
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