Uniti per lo sciopero e anche per la pace

Guerra e precarietà , movimenti in assemblea alla Sapienza

Guerra e precarietà , movimenti in assemblea alla Sapienza

A passo di corsa, ché niente come la guerra alle porte di casa smuove i cervelli. L’assemblea nazionale «Uniti per lo sciopero», filiazione diretta di «Uniti contro la crisi», registra quest’urgenza. Anche a costo di farsi spiazzare dal più impaziente di tutti, dall’unico in quest’aula che la guerra sa di certo cos’è. Nell’aula I di Lettere, cuore di mille assemblee storiche, Gino Strada lancia la manifestazione nazionale del 2 aprile, a Roma, in piazza S. Giovanni, sorprendendo un po’ tutti i gruppi, i sindacati, i collettivi. La logica assembleare dei movimenti degli ultimi 20 anni, con la paziente ricerca della condivisione anche nel dettaglio, è sembrata immobile di fronte alla rapidità con cui jet anglo-francesi e missili Usa hanno aperto la danza infernale sui cieli libici.
Una difficoltà più obiettiva viene dal dover affiancare, in uno spazio stretto di tempo, mobilitazioni incentrate su temi vicini ma distinti (acqua, nucleare, scuola, contratti… guerra), scontando le piccole frizioni inevitabili quando ‘insiemi’ che si erano pensati come autonomi si devono concentrare. Serve maturità, e viene trovata rapidamente. Il collegamento in video con Lampedusa dà il senso del bisogno di fare, ora e qui. L’assemblea vira così verso un obiettivo semplice: prendere decisioni. Tocca a Gianni Rinaldini, coordinatore de «La Cgil che vogliamo», collegare strettamente i distinti. «Contro la guerra, contro i bombardamenti», con l’autocritica necessaria per la lentezza con cui i movimenti si sono pronunciati a sostegno delle rivolte del Nordafrica: «gli altri ci hanno giocato, per costruire una campagna di falsi che portava alla guerra». Ma è l’incidente di Fukushima, contemporaneo e gravissimo, a «segnare uno spartiacque rispetto al futuro». È «il modello di sviluppo centrato sul nucleare e il petrolio ad essere entrato irrimediabilmente in crisi». Chi si ostina a voler rimettere in piedi questo modello ­ tutti i governi dei cosiddetti paesi avanzati – non fa che «accelerare i processi di guerra per appropriarsi delle fonti di energia».
Dentro questo livello di complessità si collocano tutti i temi: quelli referendari sui beni comuni come l’acqua, il no al nucleare, e la precarietà, il reddito di cittadinanza, la scuola, le risorse finanziarie da trovare «tagliando le spese militari» e con nuovi strumenti fiscali che alleggeriscano la posizione di lavoratori e pensionati, redistribuendo il peso «su quel 10% di famiglie che possiedono il 50% della ricchezza». Tutti temi che chiamano in causa la riduzione di democrazia che stiamo vivendo qui. Perché se «si riducono i diritti del lavoro», «si elimina il contratto nazionale» e «si parte per la guerra», è la democrazia a venir svuotata di efficacia.
Difficile dirlo meglio di come ha fatto Moni Ovadia, che ritrova la parola giusta – «rivoluzionario» – per definire il bisogno di cambiare il modello di sviluppo. Modello che oggi – con il patto appena siglato tra capi di governo europei – «prevede esplicitamente di eliminare la contrattazione e fissa vincoli solo monetari, non sociali, alle politiche economiche». Facile prevedere davanti a tutti noi anni di «tagli finanziari e sociali insopportabili». Un punto essenziale riguarda il rapporto con i migranti, «eroi da difendere finché stanno sull’altra sponda del Mediterraneo e gente pericolosa da respingere quando arrivano qui». Ne vien fuori, oltre alla proposta di una «staffetta» con quanti stanno operando a Lampedusa, anche l’organizzazione di «una carovana che travalichi i confini della Tunisia».
Lo sciopero generale del 6 maggio, «strappato con fatica» a una Cgil a lungo esitante – lo ripeteranno in tanti, da Luca Casarini a Mimmo Pantaleo (segretario generale della Flc) – non è il sogno della «spallata finale», ma «una tappa fondamentale in un percorso che arriva a Genova, per il decennale». Ed è soprattutto Maurizio Landini, vulcanico segretario della Fiom, a spiegare che «bisogna farlo riuscire, svuotare i posti di lavoro, bloccare il paese»; «prolungarlo a 8 ore, generalizzarlo a tutte le figure sociali, ai precari»; non bisogna «sprecare l’occasione», anche se «non sarà sufficiente a cambiare il quadro politico e sociale». Si dovrà «andare avanti, costruire azioni unitarie sui territori», «includere e mettere all’opera l’intelligenza di tutti i lavoratori» per «delineare un sistema industriale con al centro le energie rinnovabili». Il nesso guerra-petrolio, del resto, è fin troppo chiaro. E brucia il futuro dell’umanità.
Il percorso disegnato nel documento finale ha tappe quasi settimanali di mobilitazione nazionale (oggi per l’acqua pubblica, sabato prossimo contro la guerra, il 9 aprile contro la precarietà, poi lo sciopero, i referendum e altre giornate ancora non calendarizzate, fino al 20 luglio ligure).
A passo di corsa, perché «gli altri sanno benissimo cosa voglio e cercano già ora di dividerci».

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