Una costitutiva infelicità caratterizza il rapporto più autentico tra allievo e maestro: questo l’insegnamento che Maurizio Ferraris riprende da Jacques Derrida, del quale ha da tempo raccolto, problematizzandola, l’eredità . Da questo punto di vista, la rievocazione dei ricordi personali, che abbondano nei cinque saggi di Ricostruire la decostruzione (uscito da Bompiani) svolge la funzione rituale di convocare il maestro, evocandone lo «spettro»
Una costitutiva infelicità caratterizza il rapporto più autentico tra allievo e maestro: questo l’insegnamento che Maurizio Ferraris riprende da Jacques Derrida, del quale ha da tempo raccolto, problematizzandola, l’eredità . Da questo punto di vista, la rievocazione dei ricordi personali, che abbondano nei cinque saggi di Ricostruire la decostruzione (uscito da Bompiani) svolge la funzione rituale di convocare il maestro, evocandone lo «spettro»
Georg Simmel scrisse una volta che la sua opera non avrebbe avuto un seguito, non avrebbe cioè prodotto né una scuola, né una corrente di pensiero. L’eredità che egli lasciava ai posteri, diceva, poteva anche essere ricca ma era fatta soltanto di monete spicciole: scomode da maneggiare, difficili da riunire in un patrimonio, difficilissime da spendere senza rischiare di rendersi ridicoli. Probabilmente Jacques Derrida non si sarebbe sentito a suo agio nell’immagine usata da quello che era stato pur sempre l’autore di una Filosofia del denaro. Di certo, però, coltivava sensazioni molto simili.
Per quanto gli slogan della decostruzione fossero diventati moneta corrente nella filosofia degli anni Ottanta e Novanta, la geniale dispersività del suo saggismo non poteva universalizzarsi in una teoria e il suo formidabile virtuosismo di lettore poteva essere facilmente rovesciato in un culto estetico dei dettagli o nel collezionismo dei lapsus filosofici. Nella sua ultima intervista, pubblicata su «Le Monde» nell’estate del 2004, Derrida esprimeva la sua preoccupazione in una forma significativamente ambivalente: «alla mia età sono aperto alle ipotesi più contraddittorie» e «ho il duplice sentimento che da un lato, per dirla sorridendo e senza modestia, non si sia ancora cominciato a leggermi», dall’altro «che un mese o quindici giorni dopo la mia morte non resterà più niente, salvo quello che è conservato nelle biblioteche come deposito legale».
Materialità dell’incorporeo
Sono parole che in effetti, dette da Derrida, fanno sorridere: il filosofo che ha combattuto strenuamente la categoria di «presenza» in metafisica vede il destino del suo pensiero così legato al proprio essere presente in vita da immaginarlo sepolto insieme a lui, o poco dopo di lui. Contemporaneamente sono parole che fanno capire quale sia il compito che attende, oggi, non tanto chi voglia proseguirne il lavoro, imitarne lo stile e giocare al piccolo decostruttore, ma chi voglia tentare di leggerlo diversamente per ritrovare nei suoi testi una cartina di tornasole del presente.
Maurizio Ferraris ha da tempo problematizzato il suo rapporto con l’eredità derridiana facendosi carico, in modo sempre più evidente, anche dell’infelicità costitutiva che – è stato proprio Derrida a scriverlo – caratterizza l’autenticità del rapporto fra allievo e maestro. Nei cinque saggi di cui si compone il libro Ricostruire la decostruzione (Bompiani, pp. 108, euro 10,00) Ferraris scrive che bisogna staccare «l’opera e la teoria dall’uomo e dalle sue sottigliezze, per potergli assicurare un avvenire», ma al tempo stesso che occorre tener ferma l’individualità di chi quell’opera ha prodotto, facendo tesoro della sua singolarità fino al punto di ricordarne i caratteri irriducibili, nella scrittura come nella biografia. Se dall’opera di Derrida non ci parlasse anche Jacques – o meglio Jackie, il suo vero nome anagrafico – rischieremmo di perdere una parte fondamentale del suo insegnamento, quella che evidenzia come la separazione del pensiero dal corpo, o dell’idea dal segno e dalla scrittura, sia la radice di ogni nevrosi metafisica.
La rievocazione dei ricordi personali, abbondanti in questo libro come in tutti gli scritti che Ferraris ha pubblicato su Derrida dopo la sua morte, svolgono da questo punto di vista una funzione rituale. Servono infatti a convocare il maestro in persona, a evocarne lo spettro, per riprendere una figura da lui tematizzata con insistenza a partire dagli anni Novanta ed esemplarmente affrontata in Spettri di Marx (1993). In modo diverso da quanto avviene classicamente nel concetto di «spirito», in quello di «spettro» individualità e materialità non vengono rimosse e anzi – nota Ferraris – «si realizza un “materialismo dell’incorporeo” che Derrida aveva valorizzato in Artaud, che ritrova in Marx» ma che per lui risaliva all’incontro, negli anni della formazione, con il tentativo di conciliare fenomenologia e materialismo dialettico proposto da Trân Dúc Tháo. «Il fantasma è materialista» e quando appare lo fa per chiedere giustizia, ovvero perché la sua memoria venga custodita e perché venga onorato il debito che i viventi hanno contratto con lui o per suo tramite.
La questione della giustizia è centrale nell’ultimo Derrida, che più volte l’ha definita come «il fondo indecostruibile della decostruzione» e, dunque, come il limite che arresta il lavoro potenzialmente interminabile dell’analisi filosofica. Eppure, proprio il suo modo di riferirsi alla giustizia è problematico, anzi dipende da uno slancio individuale che difficilmente si può tradurre nel patrimonio di un’eredità filosofica e richiede, invece, una più netta presa di distanza. Per Derrida, nota Ferraris recensendo in modo semiserio La scrittura e la differenza, la sfera pratica esercita una forza di attrazione maggiore rispetto a quella della teoria. L’etica, perciò, non solo viene «prima» dell’ontologia, ma deve guardarsi da questa restandone il più possibile indipendente. La decostruzione stringe nell’angolo le teorie filosofiche e rivela come alla loro base vi sia un nucleo di opzioni concettuali indecidibili, non risolvibili cioè in termini di argomenti razionali. Ferraris sottolinea l’importanza che ha avuto per Derrida la lettura di Kierkegaard, secondo il quale «l’istante della decisione è una follia», e vede affacciarsi lo spettro di un altro maestro, Emmanuel Lévinas, nell’idea di un’etica senza ontologia. Ma se è privata del rapporto con un «dovere», se non ha un mondo di oggettività da condividere e di valori da comunicare l’etica si riduce a una serie di scelte personali che si possono intendere tutt’al più come testimonianze, comportamenti esemplari. Derrida, da questo punto di vista, è passato da una fase in cui lo si considerava «impolitico» a una nella quale ha moltiplicato le sue prese di posizione contro le logiche del dominio, a volte frontalmente osteggiate e a volte smascherate con le risorse della sua saggistica, come nell’analisi della categoria degli «Stati canaglia» o di quel che è implicito nel nome Infinite Justice dato dall’amministrazione Bush alle operazioni di reazione militare dopo gli attentati dell’11 settembre. Ma la testimonianza personale, per quanto rievocabile attraverso la specifica spettralità delle parole che rimangono scritte nei libri, non è sufficiente a dettare criteri e non può essere universalizzata. Cercando di riportare il pensiero di Derrida alla base materialista da cui erano nate le sue intuizioni fondamentali – le nozioni di traccia e di registrazione, la centralità della scrittura, la riflessione freudiana sul Notes magico da cui derivava un’ipotesi di funzionamento della memoria e dell’intelligenza umana – Ferraris insiste allora sul bisogno di un’ontologia che corra magari il rischio di «imbarbarire» le finezze barocche della decostruzione e sviluppi l’altro versante auspicato da Derrida, quello di una nuova «costruzione» filosofica. Su questa linea Ferraris disegna la distinzione fra «oggetti sociali», che esistono solo in virtù di un’iscrizione che li registra e li rende riconoscibili a una comunità di soggetti, e «oggetti naturali», che invece esistono indipendentemente dai soggetti. Derrida, ammette Ferraris, non li avrebbe distinti in questo modo e non li avrebbe chiamati così, ma la sua cautela ha anche reso possibile che la «celebre» e «nefasta» asserzione secondo cui «nulla è al di fuori del testo» diventasse prima una bandiera del pensiero postmoderno, poi il grande pretesto teorico di cui si è alimentata la perversione del nuovo populismo. A questo smottamento Derrida si è opposto in nome di un’idea di Illuminismo animata essenzialmente da una «tensione morale». Ferraris ritiene invece che occorra fornire al programma illuministico una base più solida e un nuovo slogan: «nulla di sociale esiste fuori dal testo». Le ricerche per un’ontologia così orientata non devono temere, secondo Ferraris, la possibilità di percorrere anche un’altra strada intravista e sollecitata in più occasioni da Derrida, quella di una cultura pop che ancora suscita scandalo negli ambienti d’accademia. Ferraris ricorda lo sconcerto con cui venne accolta la citazione di una canzone dei Beatles, Back in the Ussr al termine di un discorso tenuto da Derrida a Napoli nel 1991. Lui stesso alterna, nelle sue pubblicazioni, lavori di ricerca ad altri nei quali tenta di individuare un contesto teorico, come nel caso di Ricostruire la decostruzione, ad altri ancora nei quali registra appunti di pensiero in moneta spicciola, come nel caso di un volume pure apparso in queste settimane, Filosofia per dame (Guanda, pp. 201, euro 13,00), che raccoglie un piccolo lessico accumulato negli anni per una rubrica del settimanale «Donna Moderna».
Una forma straniata di addio
Comune a questi vari livelli del suo discorso è la volontà di riattivare quel circuito di comunicazione che nell’opera di Derrida, al di là dello stile personale e di scrittura, gli sembra rimasto allo stadio di un progetto sospeso nel cantiere di una dimensione pubblica in via di costruzione. Nel momento in cui prende le massime distanze dal maestro, Ferraris sente però il bisogno di tenerne accanto a sé il più possibile lo spettro, trasmettendoci la memoria della sua uscita di scena, le parole che Jacques affidò al figlio Pierre perché le leggesse al suo funerale: «vi sorrido, ovunque io sia». Ferraris le associa a una canzone di David Bowie, Space Oddity, che narra di un astronauta perduto fra le stelle, a metà strada tra fantascienza e psicosi, senza più comunicazione con il centro di controllo a terra. Una forma straniata di addio, una separazione lieve e insieme perturbante che ci rende Derrida oggi lontano nello spazio, più che nel tempo, esiliato dal nostro bisogno di fondare le scelte politiche su nuovi principi di legittimità, ma tutt’ora vivo tra le pagine di un’opera che forse attende ancora la si cominci a leggere.
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