Stato d’emergenza e riforme, Bashar non rompe i tabù

Forse è esagerato dire che la «montagna ha partorito il topolino», ma l’atteso discorso alla nazione pronunciato ieri dal presidente Bashar Assad ha tradito buona parte delle aspettative alimentate nei giorni scorsi dalle indiscrezioni su un’imminente «svolta epocale» in Siria

Forse è esagerato dire che la «montagna ha partorito il topolino», ma l’atteso discorso alla nazione pronunciato ieri dal presidente Bashar Assad ha tradito buona parte delle aspettative alimentate nei giorni scorsi dalle indiscrezioni su un’imminente «svolta epocale» in Siria

Acclamato dalla popolazione che per la maggior parte lo sostiene, applaudito a ripetizione dai deputati, Assad è stato piuttosto vago sulle riforme che intende attuare dopo le proteste senza precedenti a Daraa e Latakiya e all’indomani delle dimissioni del governo.
E ha anche stigmatizzato, come altri leader arabi, «complotti» stranieri e delle tv satellitari, che sarebbero all’origine delle proteste dei giorni scorsi in cui decine di dimostranti sono stati uccisi dalla polizia. «Non siamo isolati dal resto della regione, ma non siamo una copia degli altri paesi», ha detto Assad definendo i disordini «una cospirazione, differente nella forma e nel momento prescelto da ciò che succede altrove nel mondo arabo». Ha poi avvertito che il caos danneggia la difesa della causa palestinese (in Siria ci sono centinaia di migliaia di profughi e gli uffici delle principali fazioni) e non ha smentito le affermazioni della sua consigliera Butheina Shaban, che aveva addossato proprio a «elementi palestinesi» la responsabilità degli scontri violentissimi divampati a Latakiya. 
Dopo aver pronunciato una estenuante introduzione – celeberrime quelle di suo padre e predecessore Hafez – e spiegato che la mancata realizzazione delle riforme è stata la conseguenza di avvenimenti internazionali (Intifada palestinese nel 2000, attentato alle Torri Gemelle nel 2001, l’invasione dell’Iraq nel 2003, le pressioni sulla Siria dopo l’assassinio di Rafiq Hariri nel 2005, l’attacco israeliano al Libano nel 2006, e così via), Bashar Assad si è limitato ad affermare che le priorità del nuovo esecutivo dovranno essere la lotta alla disoccupazione e alla corruzione: «Se vi sono dei riformatori, li appoggeremo: siamo totalmente favorevoli a delle riforme, è il primo dovere di uno Stato; ma non siamo favorevoli al dissenso». Dunque disponibilità a soddisfare le richieste della popolazione ma non a «tollerare il caos». 
Nessun accenno né alla nuova legge sulla stampa, né a quella sul pluralismo politico, né soprattutto alla revoca dello stato di emergenza, in vigore dal 1963 e che limita fortemente le libertà e i diritti dei cittadini, autorizzando inoltre l’arresto di qualunque cittadino, sulla base di semplici «sospetti». Il presidente siriano ha insistito sul fatto che le riforme saranno fatte sulla base della necessità di armonia tra il popolo e il governo, e non come risposta a pressioni esterne. 
Al termine del discorso, durato circa un’ora, molti siriani hanno applaudito, convinti che solo il presidente potrà trovare le risposte idonee a risolvere la crisi. Ma la mancata «svolta» è davanti agli occhi di tutti e può avere solo due spiegazioni: o Bashar Assad non è abbastanza forte per riformare in senso più moderno e democratico il paese, o lui stesso è convinto che la difesa del regime e della stabilità deve essere la priorità della Siria anche nei prossimi anni. La crisi però non è terminata, troppe richieste popolari restano insoddisfatte. E infatti la tensione non cala. Ieri sconosciuti hanno aperto il fuoco da un’auto in corsa contro manifestanti in corteo a Latakiya.

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