In una lettera da Manchester del 27 febbraio 1861 Karl Marx scrisse al suo amico Engels: «Per distendermi ho letto le Guerre civili romane di Appiano. Ne emerge che Spartaco è l’uomo più folgorante della storia antica. Un grande generale (non come Garibaldi), un personaggio nobile, veramente rappresentativo del proletariato dell’antichità ».
In una lettera da Manchester del 27 febbraio 1861 Karl Marx scrisse al suo amico Engels: «Per distendermi ho letto le Guerre civili romane di Appiano. Ne emerge che Spartaco è l’uomo più folgorante della storia antica. Un grande generale (non come Garibaldi), un personaggio nobile, veramente rappresentativo del proletariato dell’antichità ».
Schiavo, anche se secondo Mommsen di origini regali, ex ausiliario dell’esercito romano, ex gladiatore, Spartaco divenne il più temibile nemico di Roma capitanando un esercito di «masnadieri» e dando vita alla cosiddetta terza guerra servile, forse un atto postumo della guerra sociale, forse «un’altra guerra italica». Le sue tattiche di guerriglia furono così notevoli da rimanere nei manuali bellici e da valergli, oltre venti secoli dopo, il culto di Che Guevara. Ma fu la sua capacità di emulare l’organizzazione dell’esercito romano, che conosceva dall’interno, a fargli tenere sotto scacco, fra il 73 e il 71 a. C., l’ «impero schiavista».
La passione di Marx per Spartaco avrebbe proiettato la sua ombra statuaria sull’ideologia e sulla lotta politica del ‘900. Nel Secolo Breve sarebbe diventato l’unico vero eroe del mondo antico. Al suo nome si ispireranno lo Spartakusbund di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, e la rivolta spartachista del ’19 sarà soffocata nel sangue dai Corpi Franchi di Berlino quasi come quella del 71 a. C. dalle legioni di Crasso.
A parte l’attualità del riferimento a Garibaldi, sembra però che oggi le parole inviate a Engels abbiano definitivamente perso autorità. Per Aldo Schiavone la vicenda di quello che per il marxismo novecentesco fu l’eroe fondatore della lotta di classe è antiepica, se pur implicitamente, fin nel sottotitolo: Le armi e l’uomo . «Arma virumque cano», «Canto le armi e l’uomo», è l’incipit dell’ Eneide , in cui Virgilio celebrò l’eroismo «d’ordine» del fondatore dell’impero di Roma. Schiavone, storico eminente del mondo antico, ex direttore dell’Istituto Gramsci, propone nel suo Spartaco la prima esplicita rottura della storiografia di impostazione marxista rispetto ai paradigmi di Marx. Demitizzando la vicenda di Spartaco, negando la sua qualità di eroe di classe, revocando alla sua impresa il carattere di «rivoluzione destinata a rovesciare le basi schiavistiche della società imperiale», sottolineandone invece il carattere di avventura personale che trova significato «solo all’interno dell’orizzonte della schiavitù romana, un limite da non oltrepassare», Schiavone perviene a una dichiarazione che ha la forma di un credo e la forza di un anatema: «Credo che la dilatazione arbitraria del paradigma delle classi e delle loro eventuali forme di coscienza, fino a farne una specie di chiave universale dell’interpretazione storica, è stata una delle forme peggiori di inquinamento della conoscenza del passato mai prodotte dalla cultura europea fra XIX e XX secolo».
Si sarebbe tentati di definire il suo saggio revisionista. Ma non lo è. In primo luogo perché la lettura dei processi economici e sociali della società industriale e dei suoi sistemi produttivi, contrapposti a quelli antichi, e dunque di quel «fatto grandioso e generativo della modernità stessa dell’Occidente» che è per Schiavone la lotta di classe, derivante dalla libera condizione operaia contrapposta a quella servile dello schiavo il cui valore-lavoro non è considerato tale nel ciclo economico, resta marxiana. E in secondo luogo perché ogni revisionismo è funzionale alla riproposizione di un assunto, reazionario o meno che sia. Mentre la ricerca di Schiavone su Spartaco è libera da appartenenze e la sua visione, o revisione, della vicenda cardine della lettura ideologica marxista dell’antichità ha una sola funzione: il ripristino della libertà di interpretazione; la riabilitazione del dubbio.
«Augustin Thierry aveva chiamato la storia narrazione; Guizot, analisi; io la chiamoresurrezione», scriveva Jean Michelet. Non è solo la storia antica, ma la storiografia sull’antichitàa risorgere dalle catene dell’ideologia, in questo libro dallo stile piano, depurato dalle gergalità della saggistica engagée , ma non per questo meno tenacemente avvinto al nocciolo duro dei suoi temi di interesse.
Cercando di eludere il magnetico ipnotismo dello sguardo del vincitore (che sempre scrive la storia, e tanto più quella di Spartaco, elaborata negli anni fra Cicerone e Augusto «in ambienti contigui ai gruppi dirigenti del vertice del potere»), Schiavone riapre con rigore istruttorio il frastagliato dossier delle fonti, attento a ogni minima smagliatura nella loro trama e alle tracce che può nascondere. Ne ricava un parallelo, se non un transfert, fra Spartaco e Annibale. E coglie il momento di trasformazione della ribellione servile in un grande progetto politico di sconfitta dei «padroni del mondo».
Se è vero che l’attualizzazione di Spartaco nel marxismo novecentesco aveva più di una forzatura, se è rischioso tracciare paralleli fra la contemporeaneità e un’antichità inesorabilmente aliena dalle nostre categorie sociali, economiche, antropologiche, se la psicologia di Spartaco e il suo «paesaggio interiore» di cavaliere trace dalle oscure risorse sciamaniche e dalle certe emotività dionisiache ci sono «completamente interdetti», è altrettanto vero che in filigrana, nella «mitizzazione epica» del personaggio-simbolo della lettura marxista dell’antichità, si legge un sincero, attuale disincanto, che fa del suo libro anche un manuale di sopravvivenza politica al presente.
Perché, di tutti gli esegeti del caso Spartaco, Schiavone è oggi probabilmente più vicino al più pessimista e più lucido, il «democratico» Sallustio. Che non a caso, nel commentare quella «rivoluzione», scrive: «Solo pochi vogliono la libertà, la maggior parte vuole padroni giusti».
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