Perché abbiamo espulso il fascismo dal nostro immaginario collettivo

Nel clima di interesse per la sensibilità  patriottica degli italiani (è appena trascorsa la festa per il 150 ° anniversario dell’Unità  d’Italia, e vi sono le incognite degli eventi bellici in corso) vorrei sollevare un problema spinoso. Il problema è questo: l’espulsione del fascismo dall’immaginario dell’identità  nazionale (ossia dal senso di appartenenza al noi collettivo della Nazione).

Nel clima di interesse per la sensibilità  patriottica degli italiani (è appena trascorsa la festa per il 150 ° anniversario dell’Unità  d’Italia, e vi sono le incognite degli eventi bellici in corso) vorrei sollevare un problema spinoso. Il problema è questo: l’espulsione del fascismo dall’immaginario dell’identità  nazionale (ossia dal senso di appartenenza al noi collettivo della Nazione).

I simboli chiave dell’identità italiana sono il Risorgimento e la Resistenza (guerra di liberazione «nazionale» ), non il fascismo che è espunto dal quadro. Sarebbe ridondante portare prove al riguardo, tanto il dato è ovvio, non smentibile. Da un lato, il Risorgimento denota la fase storica in cui gli Stati dinastici regionali vengono abbattuti e si forma il Regno d’Italia quale nuovo Stato nazionale e democratico; dall’altro, sono gli uomini della Resistenza (e le truppe anglo-americane) ad abbattere il fascismo, instaurando in Italia la democrazia (la Repubblica). Vi è pertanto un nesso tra l’Italia risorgimentale e l’Italia repubblicana: la prima stabilisce il sistema delle libertà politiche, che la seconda reintroduce. Il che ci fa subito capire la struttura del nostro immaginario, la ragione per la quale il fascismo è a esso estraneo, e la conseguente esecrazione del fascismo che è impressa a fuoco sulla nostra pelle collettiva. Il fascismo fu un regime esecrabile perché dittatoriale, che soppresse le libertà politiche, e condusse il Paese all’obbrobrio delle leggi razziali e alla catastrofe. Penso che nessuna persona amante della libertà e della democrazia possa dissociarsi da questo giudizio. Ciò detto, ed era necessario dirlo per evitare ogni fraintendimento, penso anche che il problema della intrinseca incompatibilità tra fascismo e identità nazionale vada ripensato. Partiamo da una constatazione. Il fascismo, come regime storico, scompare dalla realtà nel 1943-45. Eppure, l’antifascismo, che fu l’idea motrice dei partiti della Costituente, continua come simbolo vitale per tutta la storia della Repubblica fino ai nostri giorni. Questo dato di fatto si illumina se andiamo a vedere quel che dicono alcuni studiosi di vaglia (Dino Cofrancesco, Ernesto Galli della Loggia, Giovanni Orsina). Questi illustrano che l’uso della coppia fascismo/antifascismo è un’arma della lotta politica, tanto duttile quanto efficace, cui ricorre una varietà di forze politiche e culturali succedutesi nel tempo (ad esempio e in primo piano il potente Pci, e i suoi eredi attuali). Si tratta di un meccanismo tipico della propaganda politica. Esso sprigiona un’energia simbolica che non ha pari. Da un lato, l’accusa di fascismo eticizza l’antifascismo, creando un contrasto in bianco e nero, per il quale la nobiltà d’animo e lo stesso ideale di civiltà vengono contrapposti senza residui alla disumanità dell’avversario incarnante la negatività. Dall’altro, questa accusa, pur staccata dal suo ancoraggio storico, può perpetuarsi nel tempo come canale di un flusso delegittimante, i cui destinatari via via cambiano a seconda della contingenza storica (il centrismo, la Dc, il «clerico-fascismo» , lo Stato della «strategia della tensione» , giù giù fino a Berlusconi). Ma se tutto questo è vero, abbiamo un’implicazione che non deve sfuggire. L’antifascismo, che è il fattore essenziale di espulsione del fascismo dall’identità degli italiani, è in realtà un ideologismo che serve solo ai tentativi di incrementare gli equilibri di potere che stanno a cuore al politico pratico (è un po’ come il «comunismo» nella retorica di Berlusconi). Ogni ideologismo è uno schema che irrigidisce il pensiero (per questo si può reiterare all’infinito anche se cambia la struttura della realtà) e che, riguardando gli equilibri di potere, ossia la politicità pura e semplice, riguarda sempre l’attualità, non la verità storica che è irrilevante dal punto di vista politico (che non è mai scientifico). L’antifascismo è un valore specifico (e supremo) quando il fascismo è al governo o quando la minaccia che lo possa essere costituisce un pericolo reale; altrimenti diventa uno slogan da brandire per gli usi interni alla arena del potere, assumendo in tal modo un significato di parte che non può reggere il peso di modellare un’identità nazionale. Questo è il mio primo argomento che sottopongo al vaglio critico. Il secondo riguarda non più il nesso tra antifascismo e «verità di partito» , ma il discorso istituzionale sull’antifascismo (quello propriamente detto, associato cioè alla Resistenza). Questo ha mostrato negli ultimi quindici anni (per cause qui trascurabili) increspature inusitate. Penso al discorso di Luciano Violante alla Camera nel 1996 (capire le ragioni dei «vinti di ieri» , i giovani di Salò); e al discorso di Giorgio Napolitano nel 2008 al sacrario militare di El Alamein in cui, evocando l’ignominia del nazifascismo, riconosce i «valori di lealtà e di eroismo dei combattenti italiani» . Mi chiedo se questo riconoscimento ai caduti fascisti — è il caratteristico riconoscimento dell’onore delle armi ai militari nemici che hanno affrontato la morte in guerra, con la bandiera in mano e nel nome di ideali (pur non condivisibili) — non possa estendersi dai combattenti nell’evento bellico alla totalità del popolo italiano vissuto sotto il fascismo. Il punto è delicato. Non ho in mente l’interesse, già esistente e diffuso, per lo studio della cultura di massa del Ventennio (costumi, iconografia eccetera). In gioco è una ragione più alta (non meramente conoscitiva): una ragione che mantenga sì la condanna del fascismo come regime politico, ma al contempo assegni dignità alla sua comunità politica, proprio perché i suoi componenti sono i «nostri» progenitori. Non esiste una «colpa collettiva» dell’Italia. Sono esistiti milioni di esseri che con scarse risorse economiche, al di fuori delle marce e delle parate, hanno percorso la loro strada nella spontaneità della vita quotidiana, anche con il «dopolavoro» , il «treno popolare» … Ciascuna famiglia italiana conserva nella sua intimità il ricordo di un proprio caro, appartenente alla generazione invecchiata o cresciuta sotto il fascismo. L’inclusione di tale comunità nell’identità italiana ne allarga l’immaginario, definendo una genuina continuità temporale della nostra Nazione; la quale può così inserirsi nel continuum passato/presente/futuro. Ed è questa la sfida per avere un destino comune, problematico, ma comune.

0 comments

Leave a Reply

Time limit is exhausted. Please reload CAPTCHA.

Sign In

Reset Your Password