Malacaria, un omicidio fascista 40 anni fa

IL CASO Malacaria. La sinistra catanzarese,dalla Cgil all’Anpi al laboratorio Altra Catanzaro, chiede di riaprire il caso dell’uccisione di un operaio socialista nel 1971, colpito da una bomba a mano lanciata contro una manifestazione. E tira in ballo il candidato sindaco del Pdl Michele Traversa, all’epoca esponente missino: «Deve chiarire il suo ruolo nella vicenda»

IL CASO Malacaria. La sinistra catanzarese,dalla Cgil all’Anpi al laboratorio Altra Catanzaro, chiede di riaprire il caso dell’uccisione di un operaio socialista nel 1971, colpito da una bomba a mano lanciata contro una manifestazione. E tira in ballo il candidato sindaco del Pdl Michele Traversa, all’epoca esponente missino: «Deve chiarire il suo ruolo nella vicenda»

CATANZARO – Quarant’anni, un mese, due giorni: tanti, troppi per un Paese che vuol dirsi normale. Ma il caso di Pino Malacaria, irrisolto, messo anzitempo nel dimenticatoio, ripassato al tritacarne degli opposti estremismi, va riaperto. È quanto chiedono a gran voce i partiti della sinistra catanzarese, la Cgil, la sezione dell’Anpi e il Laboratorio sociale Altra Catanzaro che più di ogni altro ha in questi anni riavvolto i fili della memoria su una storia che chiede giustizia. Una delle tante in questa Italia delle mezze verità, delle rimozioni collettive, dei morti della non-memoria. L’Italia di chi ha pagato con la vita il prezzo delle proprie idee: dall’omicidio di Alceste Campanile alla morte di Carlo Giuliani, dall’assassinio di Peppino Impastato alle esecuzioni di Fausto e Iaio e Valerio Verbano. Un lungo toboga di cuori rossi caduti sotto l’incedere di una micidiale licenza d’uccidere che dal secondo dopoguerra sino ai giorni nostri ha spezzato impunemente la vita di donne e uomini, spesso giovanissimi, uniti da una passione che narra di uguaglianza, libertà e fraternità. Come quella di Pino Malacaria.
Il dossier
Catanzaro è una città di smemorati. Come le tre scimmiette, non vede, non sente, non parla. Chiude gli occhi, tira dritto e va avanti. Fra due mesi si vota per il rinnovo del Consiglio comunale, a chi vuoi importi dell’omicidio di un muratore di quarant’anni fa? Nemmeno alla famiglia, nemmeno ai congiunti di Malacaria, spariti incredibilmente dalla vita pubblica nonostante palate di fango siano state buttate contro Pino per confutare, depistare, insabbiare. Non fosse per la sezione locale dell’Anpi e per il suo presidente, Mario Vallone, nemmeno il quarantennale sarebbe stato celebrato. E poi c’è il lavoro encomiabile dei ragazzi di Altra Catanzaro che in questi anni hanno tirato su un voluminoso dossier (concesso gentilmente al manifesto) che è il più importante supporto di controinformazione sul caso.
L’attentato
Nella notte tra il 3 e il 4 febbraio 1971 una Nsu Prinz 100 si ferma davanti al Palazzo della Provincia, che all’epoca ospita gli uffici della Regione, in piazza Prefettura. Un uomo con in mano un fagotto scende dall’auto, si guarda intorno con occhiate rapide e nervose, si avvicina alle colonne dell’edificio, vi appoggia il pacco, ritorna in macchina e sgomma velocemente verso corso Mazzini, imboccando il senso vietato. Un agente di polizia nota il movimento, cerca di avvicinarsi ma, dopo aver percorso qualche passo, è ricacciato indietro dalla deflagrazione. L’ordigno esplode e manda in frantumi le vetrate del palazzo e quelle dei fabbricati vicini tra cui le Poste, il Credito Italiano e l’Ina. La strage è solo sfiorata, il custode del palazzo provinciale e la sua famiglia ne escono miracolosamente illesi, si svuota l’attiguo Teatro Comunale. I cui spettatori piombano in una situazione incresciosa e inimmaginabile: una bomba a Catanzaro. Erano i mesi dei moti di Reggio, dal luglio del 1970 al febbraio del 1971. Mentre la maggior parte delle forze politiche non riuscì a comprendere e ricondurre la rivolta in un alveo istituzionale, Ciccio Franco, un sindacalista della centrale missina Cisnal, appropriatosi del motto dannunziano «boia chi molla», ne assume la leadership e guida la sommossa per Reggio capoluogo. Mesi di duri scontri, in cui Reggio viene messa a ferro e fuoco. A Roma il compromesso viene raggiunto a fatica, e non senza strappi: gli organi regionali vengono divisi con la Giunta a Catanzaro e il Consiglio a Reggio e la promessa (vana) di grandi insediamenti produttivi nell’area reggina. Tutto questo a Febbraio: il 12 Emilio Colombo annuncia in Parlamento il suo «pacchetto», il 15 il consiglio regionale vota definitivamente Catanzaro capoluogo, il 18 a Reggio vengono rimosse le barricate di S.Caterina e il 23 viene espugnato Sbarre, il quartiere in cui fu più forte la resistenza. Ma quel cruento mese di febbraio di quarant’anni fa si apre a Catanzaro con l’omicidio misterioso di Pino Malacaria.
4/02/1971
La bomba del 3 febbraio provoca l’immediata reazione delle forze democratiche del capoluogo. Per il pomeriggio del 4 viene convocata una manifestazione antifascista a piazza Grimaldi, a due passi dal luogo dell’esplosione. 
Il 4 febbraio 1971 di Pino Malacaria inizia presto, di buon mattino. Verso le 7.30 esce dalla sua abitazione, al numero 7 di Pianicello, in Centro storico, per recarsi al lavoro. È un lavoratore edile, specializzato in ristrutturazioni e pitturazioni. Dopo aver pranzato si reca in un’abitazione privata per quei lavoretti che gli consentono di arrotondare la magra paga di un muratore. Verso le 17 rientra a casa, fa merenda e saluta la moglie: «Ciao Angela, vado al comizio…». Sarà l’ultima volta.
Nel mentre, piazza Grimaldi inizia a riempirsi di persone: un fiume di militanti, uomini di partito, gente comune accorsa chi per indignazione, chi per curiosità. Dal palco Franco Politano, segretario provinciale del Pci, annuncia che è stata negata l’autorizzazione per la manifestazione di piazza che viene rinviata a data da destinarsi e comunica che sarà tenuta comunque in serata un’assemblea nei saloni della Provincia. Contrordine compagni, dunque. Ma il muovere dei passi di chi torna indietro verso corso Mazzini è interrotto dall’eco di altri megafoni, dal rutilare di altre voci. Quelle provenienti dalla vicina sede del Msi. È un blaterare ostile e nervoso contro «i comunisti» che si alterna ad un fitto lancio di pietre dalle finestre di giovani camerati muniti di caschi e spranghe. Alcuni funzionari di Polizia irrompono nella federazione missina.
Tra le grida e il sangue 
A questo punto le urla e il fragore della strada sono interrotti da esplosioni di bombe. Il resto sono grida, sangue a cui si aggiunge il suono delle sirene delle ambulanze. La gente in preda al panico inizia a correre. Un uomo colpito si trascina lungo il vicoletto Duomo e appena svoltato l’angolo si accascia al suolo in un bagno di sangue. Quell’uomo è Pino Malacaria, che arriva in ospedale con ferite profonde agli arti inferiori e superiori. Viene condotto in sala operatoria, gli vengono asportati il pollice e l’indice della mano sinistra ma non c’è più nulla da fare: muore per trauma cranico ed emorragico causato dallo spappolamento della coscia sinistra. Insieme a lui, quel martedì pomeriggio finiscono in ospedale 35 persone.
Angela Muscimarro non ha più lacrime da piangere. In questi lunghi quarant’anni, troppi i pianti versati, troppa la rabbia spremuta per un dolore che reclama giustizia. E che ha ricevuto in cambio solo silenzi ed insabbiamenti per la morte del marito. Il 3 aprile 1974 la giustizia ufficiale ha concluso il suo corso senza trovare alcun responsabile. I quattro giovani missini di Strongoli, nel crotonese, sono stati assolti. Ed oggi per di più non esiste fascicolo che immortali nero su bianco la ricostruzione dei giudici. Gli incartamenti di un processo esaurito con un nulla di fatto (in un Paese in cui un iter giudiziario penale si dilunga in media 13 anni) sono andati stranamente perduti. Resiste solo l’annotazione di registro. Che non asseconda i sospetti sui quattro fascisti di Strongoli, finiti alla sbarra ma ben presto scagionati. Il faldone si è volatilizzato. Ma non la sete di verità e giustizia.
Poche le certezze uscite dal processo. Poche ma importanti. Anzitutto l’esplosivo che uccise Malacaria, per la tipologia e la geografia delle ferite rinvenute sul cadavere, non poteva esser contenuto nelle vesti dell’operaio per cui la leggenda che Malacaria trasportava in tasca la bomba che lo ha ucciso è falsa. Il tribunale provò altresì che le bombe a mano non potevano esser state lanciate dalla sede del Msi. Quattro furono quelle ritrovate sul posto. Una non esplose e fu rinvenuta in via Ippolito, la stradina che conduce alla Cattedrale, vale a dire dall’altra parte dell’edificio, che attualmente ospita la Camera di Commercio, sotto le cui finestre esaurì la sua corsa l’agonizzante Malacaria. Un altro ordigno fu rinvenuto due giorni dopo sotto l’abitazione di Malacaria.
Il vento cambia?
Da allora tanti, troppi dubbi sono rimasti senza risposta. Gli attivisti di Altra Catanzaro hanno concluso il loro lavoro di ricostruzione con punti interrogativi rimasti irrisolti. A cominciare dalla scelta della famiglia Malacaria di negarsi al confronto. Perché? Hanno subito pressioni? Hanno ceduto all’intimidazione della granata inesplosa sotto casa? E, ancora, che ruolo hanno avuto i servizi deviati e quanto profondi erano i legami con l’eversione nera catanzarese molto attiva e rispettata in quegli anni tanto che furono i fascisti di Catanzaro a portare a spalla la bara del principe Junio Valerio Borghese il giorno del suo funerale? In quegli anni il Fronte Nazionale di Borghese lanciò con ferocia la sua «politica» in Calabria, alimentando e strumentalizzando i moti di Reggio, tessendo rapporti con la ‘ndrangheta dei De Stefano e dei Piromalli, coinvolgendo malavitosi calabresi nei propri piani golpisti. 
Fatti che sfociarono poi nel deragliamento della Freccia del Sud, quell’atto barbaro, datato 22 luglio 1970, che costò 6 morti e 54 feriti. C’è poi quella foto d’epoca pubblicata da l’Unità che immortala Michele Traversa, camerata missino d’un tempo e candidato a sindaco per il Pdl e Udc alle elezioni di maggio, mentre si reca al carcere di Catanzaro a prendere i quattro fascisti di Strongoli immortalati mentre fanno il saluto romano, che suscita polemiche a due mesi dal voto. Con la sinistra catanzarese che chiede all’aspirante sindaco di fare chiarezza sul suo ruolo sulla vicenda (è acclarato che Traversa fosse nella sede del Msi durante gli scontri)
Da allora la nebbia del silenzio si è addensata anno dopo anno sul caso Malacaria, una fitta coltre di omissis che sembrava non potersi mai diradare. La targa in piazza della Libertà per commemorare Malacaria voluta da Altra Catanzaro è stata più volte danneggiata. Quest’anno, invece, la celebrazione del quarantennale ha di colpo risvegliato gli animi e le coscienze di una città che sembrava addormentata. Persino uno storico democristiano come Franco Cimino ha sentito il dovere di richiamare la città ad uno scatto d’orgoglio per chiedere la riapertura del processo. «Ma prima – dice Vallone – dobbiamo vincere la battaglia legale che portiamo avanti da anni per riconoscere lo status di vittima del terrorismo a Pino Malacaria». Un operaio socialista morto a trent’anni mentre difendeva la democrazia e la libertà dalla barbarie neofascista. E fascista è stata la bomba che l’ha ucciso, il braccio di chi l’ha lanciata, la mano di chi l’ha armata.

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