Libia le piazze vuote. Né mobilitazioni né bandiere i pacifisti soffrono in silenzio

Viaggio nel popolo arcobaleno Tra le denunce di Gino Strada e Paolo Ferrero e i distinguo del governatore della Puglia Vendola che fine ha fatto il movimento?
La contraddizione Tace la sinistra, solo la Lega si oppone all’intervento come contrastò l’azione in Kosovo

Viaggio nel popolo arcobaleno Tra le denunce di Gino Strada e Paolo Ferrero e i distinguo del governatore della Puglia Vendola che fine ha fatto il movimento?
La contraddizione Tace la sinistra, solo la Lega si oppone all’intervento come contrastò l’azione in Kosovo

Magari è presto per dirlo, forse bisognerà aspettare che le bombe occidentali provochino morte e distruzione, ma certo finora c’è da segnalare l’assordante silenzio di chi contro la guerra “senza se e senza ma” si è sempre fatto sentire forte e chiaro. Da vent’anni, ossia dalla prima guerra all’Iraq nel ‘91, passando per quella nei Balcani nel ‘99, quella in Afghanistan nel 2001 (ancora in corso), la seconda contro l’Iraq nel 2003. Manifestazioni, cortei, appelli, convegni, proteste di ogni genere, marce per la pace una dietro l’altra, milioni di persone nelle piazze d’Italia. Oggi niente, ancora niente.
Assuefazione alla guerra? Difficoltà a mobilitarsi in un periodo di stanca dei movimenti? Imbarazzo perché da una parte ci sono i ribelli che muoiono per la democrazia e dall’altra un dittatore che li reprime ferocemente? Nel mondo pacifista c’è un po’ di tutto questo, anche se nessuno dei protagonisti ha cambiato idea sulla guerra. Nessuno pensa che sia giusto farla. Spiega Sergio Cofferati, ex segretario Cgil, oggi deputato europeo e all’epoca dell’Iraq leader del movimento pacifista: «Scatenare la guerra nel Mediterraneo è un gravissimo errore dalle conseguenze imprevedibili. Tanto più che quelli che oggi appaiono come i più determinati per l’intervento sono stati i più corrivi nel rapporto con Gheddafi, restituendoci la sgradevole sensazione di un sovrappiù, un eccesso di zelo o per rimuovere un passato indecente». Però i pacifisti tacciono, non si mobilitano, non manifestano… «Beh, è evidente che la presenza degli oppositori al regime crea una difficoltà e una contraddizione al movimento per la pace, una contraddizione riassunta in una domanda: come aiutarli senza bombardare?».
Già, il problema è tutto qui, ma la soluzione al momento non ce l’ha nessuno. Neanche Nichi Vendola, che però un passetto in avanti lo fa: «La domanda di libertà non può essere repressa con il terrore nel nome della non ingerenza in un Paese sovrano. Allora io mi chiedo: siamo capaci, noi mondo multipolare, di soccorrere le popolazioni aggredite?». Ovviamente Vendola non si spinge ad appoggiare bombardamenti mirati, ma si capisce che, se fossero proprio mirati, forse non scenderebbe in piazza per protestare. E a proposito di piazze, lui una risposta al silenzio dei pacifisti ce l’ha: «Negli ultimi vent’anni l’Occidente ha fatto della guerra il modello di stabilizzazione del mondo. Ne ha fatte ben quattro di guerre, questa è la quinta. Il pacifismo, quello che il New York Times ha definito la seconda potenza mondiale, si è opposto. Ma è stato sconfitto. E forse è questa la ragione del suo silenzio».
Cofferati, Vendola, ma anche Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione, Flavio Lotti, presidente della Tavola della pace (quella della marcia PerugiaAssisi), il fondatore di Emergency Gino Strada pensano tutti che l’Occidente per un mese sia rimasto a guardare quel che accadeva in Libia senza fare nulla, invece bisognava muoversi prima. «Aprendo magari un corridoio umanitario per portare aiuti ai ribelli» (Cofferati). «Non è possibile che l’Onu sia passato dalla totale inerzia alla guerra, senza prendere provvedimenti, l’embargo, le sanzioni, il congelamento dei beni libici sparsi nel nostro mondo… Invece niente» (Vendola). «Si deve aprire una trattativa per una transizione democratica in Libia e in tutti i Paesi dove c’è una rivolta per la libertà. Siamo ancora in tempo» (Ferrero). «E’ incredibile che l’Occidente abbia solo una risposta, e questa sia la guerra. Ed è altrettanto incredibile che il centrosinistra la appoggi» (Strada). «Il tema della pace è stato cancellato dalla politica e dall’informazione, ma questo non significa che non sia radicato nella coscienza di milioni di persone. Se la guerra dovesse scoppiare sul serio, sono certo che si faranno sentire» (Lotti).
Forse, chissà, vedremo domani. Per ora i pacifisti non si vedono e non si sentono. La situazione, spiega ancora Ferrero, ricorda quella della guerra nei Balcani, il famoso intervento umanitario. Allora al governo c’era D’Alema e tutto il centrosinistra era favorevole alla guerra insieme al centrodestra. Non erano d’accordo i «soliti» pacifisti e la sinistra radicale, i quali faticarono a organizzare qualche manifestazione di protesta, peraltro non oceanica. Anche perché, ieri come oggi, il movente dei bombardamenti era fornito dal massacro di civili operato da gente senza scrupoli, Milosevic e Gheddafi. Dunque non era facile opporsi. Chi si oppone invece, ieri come oggi, è la Lega, stavolta accompagnata dai giornali di centrodestra: «Costretti alla guerra» (titola Il Giornale), «Ci mancava solo la guerra al beduino» (replica Libero). E questa è una novità.

Corriere della Sera 20.3.11
La sinistra e la guerra. In Iraq no, in Libia sì
di Paolo Conti

ROMA— L’espressione è diplomatica («il complesso rapporto della sinistra con la guerra…» ). Però ieri Il Foglio ha registrato, in suo editoriale, il «sì» del Pd alla risoluzione Onu sulla Libia («La guerra che piace alla gauche» ). Sottolineando le contraddizioni: no alla cacciata di Saddam Hussein («obiettivo considerato “imperialista”), sì al bombardamento di Belgrado («considerato strumento indispensabile per l’affermazione di ideali umanitari» ). E sì oggi in Libia. Il nodo sinistra-guerra è intricato. Non tutto è lineare come il «no» di Gino Strada, identico a quello pronunciato sull’Iraq. Lo dimostra, mentre la sinistra radicale («Onu-Nato Assassini» ) manifesta davanti all’ambasciata di Francia, la spaccatura a il manifesto tra Rossana Rossanda e Valentino Parlato. Nel 1999 nessuna esitazione: entrambi per il no. Rossanda disse al Corriere della Sera: «Se si arriverà a un intervento di terra nel Kosovo, inviterò alla diserzione e me ne assumerò tutte le responsabilità» . Piero Fassino, allora ministro per il Commercio con l’estero del governo D’Alema pro intervento Nato, le rispose duramente: «Lo ripeta guardando negli occhi i bambini kosovari» . Oggi Rossanda (9 marzo scorso) è su posizioni diverse: «Al manifesto non riesce di dire che la Libia di Gheddafi non è né una democrazia né uno stato progressista… mi impressiona che nessuno abbia voglia di offrire a questo popolo un aiuto» . Parlato è furiosamente su un altro fronte: «Questa è una guerra veterocolonialista. Francia e Inghilterra, vista la crisi dell’atomo dopo il disastro del Giappone, restituiscono il dovuto valore al petrolio e vogliono accaparrarsi quello libico» . Sorriso: «Diciamo che da questo punto di vista mi trovo su posizioni filoamericane…» . Se dovesse decidere lei, Parlato? «Al posto di Berlusconi, tratterei con Gheddafi subito e tenterei di mantenere i privilegi dei nostri accordi. Indubbiamente la penso in modo molto diverso da Rossana» . Altro che rapporto solo complesso. C’è persino il tormento. Luigi Manconi, già leader dei Verdi nel 1999, sempre con D’Alema a Palazzo Chigi, considerò «sbagliato in sé» l’intervento contro Saddam in Iraq. Invece nel 1999, sul Kosovo, i Verdi votarono un sofferto sì. Racconta oggi Manconi: «Alla fine la soluzione mi appariva inevitabile e chiara, anche perché eravamo forza di governo» . E oggi, lei che non è più parlamentare ma è l’animatore dell’associazione «A buon diritto» , avrebbe votato sì? «Però un mese fa. Si sarebbe potuto intervenire in maniera più efficace e meno cruenta, riconoscendo gli insorti e sostenendoli. Avremmo potuto farlo persino noi se non avessimo avuto con Gheddafi quel ruolo di subalternità tutto affidato alla politica di respingimenti disgraziatamente basata sulla negazione dei diritti fondamentali della persona» . C’è poi il caso articolato del Pd, maggior partito di opposizione (oggi) e di maggioranza relativa (nel 1999). Ai tempi di Saddam il no fu senza se e senza ma. Nella stagione di D’Alema a Palazzo Chigi, altro senza se e senza ma, però con un sì. Oggi altro sì privo di ombre con Gheddafi. Come si spiega un simile andamento? Dice Nicola Latorre, vicepresidente del gruppo Pd al Senato: «Sinceramente non vedo alcuna contraddizione» . Allora cominciamo da Saddam: «Lì c’era un unilateralismo ideologico degli Stati Uniti, l’assurdo tentativo di “esportare la democrazia”che inevitabilmente portò acqua al mulino della radicalizzazione dello scontro tra civiltà» . E il Kosovo? Non pesava molto, troppo, la presenza di D’Alema a Palazzo Chigi? «Dirò anzi che lì arrivammo in ritardo, a pulizie etniche già concluse, con un Occidente ottusamente lontano e miope» . E ora arriviamo alla Libia. Siamo veramente così lontani da Saddam, scusi? Cicchitto ve lo ha fatto notare. «Nulla a che vedere. Qui si interviene per tutelare i civili, non per “esportare la democrazia”ma per aiutare i libici a riprendersi la loro. Piuttosto vorrei rispondere a Cicchitto che senza di noi il governo sarebbe andato sotto…» . Infine Nichi Vendola, Sinistra Ecologia e Libertà, che non ha cambiato idea in nessuna delle occasioni di guerra: «La logica secondo cui per fermare un massacro bisogna compierne un altro pone dilemmi e prospettive inquietanti. La cosa più saggia è concentrarsi sul cessate il fuoco e puntare sull’isolamento di Gheddafi. Comunque sia, non si può invocare la non ingerenza quando si è in presenza del terrore di Stato. Ma bisogna puntare su azioni che non siano la guerra per riuscire a tenere una cornice internazionale di legalità» .

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