Il crepuscolo del Cavaliere

UNA CONTRORIVOLUZIONE IN NOME DEL GODIMENTO

Una visione dei rapporti sociali che ha considerato il mercato come lo strumento regolatore della sessualità . Per ironia della sorte, la realtà  prodotta si rivolge contro il suo massimo interprete. Un sentiero di lettura sulle fortune e il declino politico di Silvio Berlusconi. Un personaggio che ha tratto linfa vitale da quanti, a destra come a sinistra, pensavano che dovesse essere rimossa la Costituzione italiana

UNA CONTRORIVOLUZIONE IN NOME DEL GODIMENTO

Una visione dei rapporti sociali che ha considerato il mercato come lo strumento regolatore della sessualità . Per ironia della sorte, la realtà  prodotta si rivolge contro il suo massimo interprete. Un sentiero di lettura sulle fortune e il declino politico di Silvio Berlusconi. Un personaggio che ha tratto linfa vitale da quanti, a destra come a sinistra, pensavano che dovesse essere rimossa la Costituzione italiana
La scena ritrae un cupo baratro infernale. Al centro, un vecchio, nudo e curvo, al quale si avvinghia una piovra dalla forma uterina, in procinto di soffocarlo. Intorno, tre donne assistono all’esecuzione: sono Erinni dai corpi sinuosi e dalle chiome fluenti, inviate dalle tre allegorie della Verità, della Giustizia e della Legge che dominano dall’alto, su uno sfondo freddo e inerte, fatto di pareti e pilastri istoriati a mosaico. Appena sotto il quale emergono i giudici: piccole facce senza corpo, impassibili e insensibili alla drammaticità della scena sottostante.
È la famosa rappresentazione della Giurisprudenza di Klimt. Al centro della quale non sta il perentorio imperativo della legge, ma solo la ferocia della sua punizione. Una punizione che mette in scena la castrazione maschile di fronte ad una sensualità femminile capace, ad un tempo, di suscitare piacere e condurre alla morte. E in cui si esprime il sentimento d’inadeguatezza del maschio al cospetto di una beatitudine carnale che, non potendo essere compresa, diventa per ciò stesso minacciosa e ostile, dando luogo ad un terrificante incubo erotico.

L’ipocrita indignazione
Carl Schorske ne ha magistralmente spiegato la genesi. In quei primi anni del Novecento, la borghesia viennese committente di Klimt subisce la crescente contestazione di movimenti che sfidano apertamente l’egemonia del liberalismo. Ma è un tempo in cui l’ethos pubblico, ormai incapace di governare le tensioni sociali generate dal dominio del capitale finanziario, si è ripiegato nel pathos privato. Così, la crisi dell’ordine liberale di fronte alle forze che esso stesso ha suscitato viene percepita e raffigurata come una crisi dell’Io maschile di fronte all’emersione della soggettività femminile: una soggettività ancora in statu nascenti, giusto come quella del proletariato, ma già in grado di scuotere gerarchie sociali consolidate e indurre, con la sua sola presenza, l’incubo dell’abisso. «Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo», aveva del resto scritto Freud ad esergo dell’Interpretazione dei sogni: non più capace di sottomettersi il suo proprio movimento sociale, l’uomo liberale abdica alla ragione strumentale e calcolante che aveva governato il flusso circolare dell’economia capitalistica così come della Ringstrasse, e precipita nell’irrazionalità del caos, dell’indistinto: ché tale gli appare ogni istanza di godimento che non sia quello suo personale.
Sostituite alle Erinni klimtiane Ruby, Veronica e Patrizia D’Addario, date alle icone sovrastanti i volti delle tre magistrate del collegio giudicante milanese del prossimo 6 aprile, e avrete un’allegoria del crepuscolo berlusconiano. Forse una nemesi, come ha suggerito Famiglia Cristiana. O forse la conferma che i grandi eventi si presentano sempre due volte: la prima volta come tragedia e la seconda come farsa, come osservò Marx. Del resto, in quale altro modo avrebbe potuto compiersi quella medesima svolta reazionaria auspicata negli anni ’80 dal «Piano di rinascita democratica» della Loggia P2? In che modo, se non inscenando una farsa, avremmo potuto assistere inerti al cambiamento della costituzione materiale del nostro Paese? Davvero c’era bisogno di un personaggio clownesco (la definizione è dell’ex ambasciatore Usa, Ronald Spogli) che, distraendo l’opinione pubblica con le sue goliardate da «vecchio giovane» e con le polemiche che immancabilmente ne seguivano, consentisse alle classi borghesi di operare dietro le quinte per riappropriarsi di quel potere che la Costituzione repubblicana gli aveva sottratto.
Oggi, dalla parte avversa a Berlusconi, tutti si indignano. Ma questa indignazione generalizzata è parte del problema, non la soluzione. L’indignazione degli avversari del «Popolo della libertà» è piuttosto l’altra faccia del rifiuto di assumersi la responsabilità di un accaduto al quale, invece, hanno attivamente partecipato. Non soltanto attraverso ineffabili «atti mancati», com’è stato per la legge sul conflitto di interessi o le assenze in aula al momento del voto su provvedimenti apparentemente «esecrati» (uno fra tutti: lo scudo fiscale). Ma soprattutto per le privatizzazioni, le liberalizzazioni e le «riforme» del mercato del lavoro e delle pensioni del futuro. Scorrete le date e gli autori dei principali provvedimenti che, nell’ultimo ventennio, hanno sancito la progressiva ritirata dei governi dal comando pubblico dell’economia: avrete delle sorprese.

Il putsch del ’92
Vien fatto di sorridere, allora, se Paolo Guzzanti, già editorialista di Repubblica e poi asceso allo scranno senatoriale nelle file berlusconiane, scrive adesso un caustico pamphlet antiberlusconiano per dirci che «non si possono togliere le mutande alla Costituzione della Repubblica per farsela contro un muro, magari sostenendo di averla fatta godere». Noi ne conveniamo. Ma dov’era Guzzanti in quell’aprile 1993, quando il suo ex giornale titolava festoso «È nata la Seconda Repubblica» per celebrare un putsch antipolitico che stravolgeva in senso maggioritario e leaderistico l’essenza partitica e proporzionalista della Carta del ’48? E dov’era quando, qualche mese dopo, Carlo Azeglio Ciampi, dopo aver riscritto negli anni ’80 la nostra costituzione monetaria, ne ridisciplinava in stretta contiguità quella salariale? Ci dispiace che il Presidente emerito detti adesso un libro di memorie per dirci che questo «non è il Paese che sognava», ma da banchiere centrale, primo ministro, ministro dell’Economia e Presidente della Repubblica ha concorso a costruirlo come pochi altri.
Epperò, Berlusconi serviva. Il mutamento di costituzione materiale che abbiamo vissuto dal 1992 in poi aveva pur bisogno di soggettivarsi in una figura che, con la sua stessa esistenza corporea, ne dimostrasse la concreta possibilità di successo, stemperando l’insicurezza e l’angoscia di massa che ogni cambiamento epocale porta con sé. Per ciò la sua figura è stata (ed è) oggetto di amore popolare: Berlusconi è stato l’unico leader contemporaneo che è apparso credibile nella sua perorazione dell’ordine del mercato come «il migliore dei mondi possibili», perché diversamente dai suoi avversari non vi ha mai associato la mistica dei «sacrifici», ma solo il puro godimento. Era certamente una mistificazione, perché – non l’abbia a male Lacan – il «discorso del capitalista» non promette mai godimento immediato, ma solo godimento futuro come contropartita dell’astinenza presente, come non si stancano di ripeterci i soloni che invocano l’abbattimento del debito pubblico. Ma era una mistificazione necessaria affinché il nuovo ordine trionfasse tra le gaudenti generazioni sessantottine – come in effetti ha trionfato.

Nichilismo di massa
Ci voleva uno sguardo «filosofico» per cogliere il senso del crepuscolo berlusconiano: la filosofia, diceva Hegel, è come la nottola di Minerva, che spicca il volo solo sul far della sera, quando gli eventi si sono compiuti e si avviano al declino. Ma soprattutto ci voleva lo sguardo di giovani filosofi, non compromessi col niccianesimo e heideggerismo «di sinistra» all’insegna dei quali, a partire dagli anni ’80, si è compiuta la distruzione della ragione dialettica: come gli autori di questo magnifico Filosofia di Berlusconi, appena pubblicato per l’editore veronese Ombre corte.
Sono loro a metterci in guardia dall’abuso della categoria di «autoritarismo», che più volte è stata evocata per descrivere l’essenza del berlusconismo, fraintendendo che quest’ultimo consiste piuttosto in una particolare torsione del liberalismo comune a tutta la classe dirigente, che ha ogni interesse ad alimentare l’ipertrofia di certe «libertà» particolarmente care agli italiani (evadere le tasse, lavorare e far lavorare in nero, costruire in spregio alle norme edilizie, gestire in modo particolaristico il pubblico potere). Sono loro a spiegarci che Berlusconi non intende offrire alcuna norma a cui conformarsi, ma piuttosto assecondare il corso normale della società capitalistica, proponendosi come «uno di noi» che partecipa della sua deriva etica. Ma sono loro, soprattutto, a chiarire i motivi per cui il redde rationem torna ad assumere le sembianze di un incubo al femminile: perché, se è vero che il berlusconismo è una forma di nichilismo, la sua essenza specifica sta nella prostituzione generalizzata che il nostro Paese si è acconciato a subire pur di entrare a far parte dell’immaginario televisivo.
È qui che il regime farsesco prodotto dal liberalismo d’accatto della nostra borghesia mostra finalmente il suo volto osceno: nelle code chilometriche di ragazzi e ragazze ai casting del Grande Fratello o di Amici, che raccontano di un’alternativa fatta di precarietà e disoccupazione. E proprio qui si svela che l’ingiunzione al godimento, che ancora echeggia nella società neoliberale e post-disciplinare in cui viviamo, racconta di una «libertà» che non è affatto liberazione. Le coorti di «ninfette nell’epoca della loro riproducibilità tecnica» esercitano quel surrogato di potere che è consentito loro all’interno del contesto prostituzionale che le domina. Detto altrimenti, declinano l’emancipazione conquistata dalle loro nonne e madri all’interno della logica del mercato. Sara Tommasi, la starlette che può vantare una laurea alla Bocconi, l’ha detto con chiarezza magistrale: io sono il manager e sempre io il prodotto. La merce.
Tuttavia, detto che la fuoriuscita dal «patriarcato» è venuta a coincidere – proprio come l’emancipazione dalla servitù della gleba – con la libertà delle donne di vendere il proprio corpo (e in effetti così Marx definiva il «salariato libero»), non si è ancora detto tutto. Il non detto ci viene ancora da una donna, Patrizia D’Addario, e dal suo racconto della notte col premier sul lettone di Putin. Lei non raggiunge l’orgasmo, quell’orgasmo clitorideo che Berlusconi tenta ostinatamente di procurarle, e così facendo, inconsapevolmente, si sottrae all’imperativo del «padrone» di godere con lui e per sempre. È uno smacco per l’uomo post-patriarcale, che dal godimento femminile è talmente ossessionato da averne fatto – come ha ben mostrato Simone Regazzoni – la Urszene dell’iconografia pop porno. Ma siccome la sessualità parla anche sempre d’altro, quello smacco racconta altresì del fallimento definitivo della promessa liberale-liberista-libertaria che Berlusconi ha incarnato. Del mito dell’eterna riproduzione allargata del capitale.

Il valore di scambio del desiderio
È a causa di questo fallimento che oggi Berlusconi è chiamato ad assumere le sembianze del protagonista maschile della Giurisprudenza di Klimt: «un vecchio dal culo flaccido», come certo l’avrebbe descritto la sua igienista dentale. Quest’Italia costruita a sua immagine e somiglianza gli si sta ritorcendo contro proprio per il carattere simbolico che la sua parabola ha avuto. E che siano le donne a ergersi a giudici ed esecutrici della sua condanna non può a questo punto stupire: l’indocilità del loro corpo al desiderio maschile non è più che una metafora dell’incapacità del capitale finanziario di sussumere la totalità del corpo sociale entro il suo desiderio di riproduzione indefinita di valore.
Più di questo la filosofia non può dire: essa può solo interpretare il mondo in modi differenti. Si tratta, oggi come mai, di cambiarlo.

0 comments

Leave a Reply

Time limit is exhausted. Please reload CAPTCHA.

Sign In

Reset Your Password