Non volevo. Il suo sangue mi schizzò addosso: ho avuto incubi per un anno Sono diventato un religioso, oggi macello polli e pecore secondo la tradizione
Non volevo. Il suo sangue mi schizzò addosso: ho avuto incubi per un anno Sono diventato un religioso, oggi macello polli e pecore secondo la tradizione
Come vi capivate, Shalom? «Con le mani. Linguaggio del corpo. Lui non parlava yemenita e io non sapevo il tedesco. Allora facevamo così — gesticola nell’aria —, perché non avevamo altro modo. Alla fine, lui capiva me e io capivo lui» . E com’è che toccò proprio a te? «Sono yemenita, la Shoah è una cosa soprattutto degli ebrei europei: all’inizio non sapevo nemmeno chi fosse, Eichmann. L’avevo scoperto solo dopo. Un giorno il comandante venne da me, si chiamava Merhavi, e mi chiese: “Shalom, ti va di schiacciare il bottone”? È il più grande dei comandamenti: “Cancella la memoria di Amalec”, di chi vuole sterminare gli ebrei… Però io dissi che non volevo. C’era qualcuno che se la sentiva, io ero l’unico che non voleva. Tirarono a sorte. E il comandante mi disse: “È un ordine. La sorte ha detto che tocca a te. Lo farai tu”» . La macelleria del boia è uno sterrato sotto l’ombra di due eucalipti e d’una lamiera ondulata, periferia di Holon, la città dei Samaritani. Un caldo pomeriggio, ci sono le donne in fila, i polli da strozzare, due occhi di capra su un tavolo e un amico che scherza: «Sembrano gli occhi di Eichmann, eh?…» . La polvere, i gatti, un gancio per appendere e dissanguare. A Shalom Nagar, certi animali viene più facile scuoiarli: «Le capre sono sfacciate. Le pecore, no: loro sono innocenti…» . Distante, discreta, una macchina da presa e una piccola troupe: chi viene qui sa di non trovare solo un religioso yemenita che macella carne come kasherut comanda. Ogni tanto, qualche padre passa in auto e indica dal finestrino: guardate quel vecchio, ragazzi, quel piccoletto col capo coperto e i cernecchi bianchi, è il secondino che ha impiccato Adolf Eichmann e vendicato milioni d’ebrei. Il boia del Boia è stato zitto quasi cinquant’anni: «Mi avevano vietato di raccontare questo segreto, non lo sapeva neanche mia moglie» . Ora ne hanno fatto il protagonista d’un documentario di 62 minuti, The Hangman. L’hanno premiato al Festival di Haifa, magari andrà a quello di Locarno. Lui non è abituato a tanta curiosità: «Alla prima venivano a stringermi la mano, a salutarmi, ero un po’ disorientato. Non immagino che cosa sarà dopo l’ 11 aprile…» . L’ 11 aprile 1961, a Gerusalemme, cominciò il processo Eichmann: la tv israeliana, il cinquantenario, lo celebrerà trasmettendo la storia di Shalom. «La sua vita m’è sembrata subito simbolica — racconta Netalie Braun, 33 anni, regista telavivi che ha filmato il boia per trenta mesi, l’unica che può girargli le domande dei giornalisti —. Voleva raccontarsi da tempo, ma all’inizio aveva paura di qualche vendetta neonazista. Siamo diventati amici. Quest’uomo è un Forrest Gump: uno che per caso s’è trovato in una storia più grande di lui» . La banalità del boia non si trova nei reportage che Hannah Arendt scrisse al processo. E di lui non s’è granché parlato al convegno che Gerusalemme ha appena dedicato al «punto di svolta» , come lo chiama Tom Segev, l’evento che mezzo secolo fa cambiò per sempre Israele: «Prima di allora — dice lo storico — la Shoah era un tabù. Commemorazioni pubbliche, certo, ma un dolore vissuto in privato. Il processo fu una terapia, la catarsi che trasformò tanti traumi privati in un trauma collettivo. L’Olocausto diventò un elemento fondante del nuovo Stato e dell’identità israeliana. Questo non significa che la terapia servì a chiarire tutto. Su Eichmann e su altri criminali nazisti, ci sono migliaia di documenti che la Germania non si decide a rendere noti. Perché? Forse per coprire altre responsabilità. Potremmo fare una domanda simile al nostro Mossad: tutti sanno come fu catturato Eichmann in Argentina, ma che sappiamo dei fallimenti? O del perché non s’è mai riusciti a processare uno come Mengele?» . Nella prigione di Ramla, dove per sei mesi Shalom fece la guardia al general manager della soluzione finale, domande così non si facevano. «Lui era il male racconta il boia— ma si sa com’erano i tedeschi. Dicevano che non ci sarebbero stati arabi o ebrei nel mondo, i bastardi e poi si mostravano così puri, così santi nelle loro azioni quotidiane… Eichmann leggeva tanto, mi diceva sempre “gracias”in spagnolo. L’accompagnavo al bagno e lui stava attento a non farmi sentire la puzza, a lavarsi le mani. Non avessi saputo chi era, l’avrei preso per un santo!» . Uno scrupoloso senza scrupoli, l’ha descritto la studiosa tedesca Irmtrud Wojak. «A sorvegliarlo eravamo in 22, divisi in cinque stanze. Yemeniti, marocchini. C’erano anche tre ebrei europei, ma a loro non era concesso d’entrare. Io stavo nella sua cella, assaggiavo i suoi cibi. La paura era che l’avvelenassero. “Perché devo assaggiare io?”. Chiedevo al comandante. Rideva: “Se perdiamo uno yemenita non è una gran perdita. Ma se perdiamo lui… C’è un processo internazionale”. Ci stavo io anche perché ho sempre avuto compassione dei carcerati. Non ne ho mai picchiato uno. Si sa: se ti prendi cura di qualcuno, alla fine un po’ t’affezioni» . La pietà della vittima per il carnefice, il giorno in cui schiacciò il bottone, divenne terrore. «Non avevo mai visto un uomo impiccato. Avevo 26 anni, che ne sapevo? Ero davanti a lui. Ho visto la sua faccia bianca, gli occhi fuori. Grandi, fissi, come se mi guardasse. Anche la lingua era fuori, insanguinata. Chiesi d’allontanarmi, ma il comandante disse no: “Non è un gioco, tiralo su e levagli il cappio”. Tremavo. Non sapevo che avesse aria nello stomaco, che potesse parlare ancora: è come con una radio, quando le stacchi la spina e per qualche secondo continua a funzionare… Eichmann era impiccato eppure biascicava ancora parole! D’improvviso, l’aria dello stomaco gli uscì col sangue. Mi soffiò in faccia. Pensai: “Oh no, sta per mangiarmi!”. Quando lo portammo alla fornace, per bruciarlo e cospargere le ceneri in mare, stavo male. Mi fecero accompagnare a casa. Mia moglie mi vide, ero tutto sporco di sangue. “Ma dove sei stato?”. Mi chiese. Lo sentirai fra qualche ora al notiziario…» . Il punto di svolta d’Israele fu il non ritorno per Shalom. «Ho avuto un anno d’incubi: mi ero cosparso del suo sangue, questo è il punto. È da lì che sono diventato religioso. E ho cominciato a sentirmi un po’ meglio» . Il boia ha avuto altri lutti, gli è morto un figlio di cancro. L’hanno mandato a fare la guardia nella prigione di Hebron e pure lì, Forrest Gump, è capitato nel mezzo della strage di Baruch Goldstein, il colono ebreo che negli anni 90 massacrò decine di palestinesi mentre pregavano. «Fu un’altra prova dura. Non me la sentii di stare in un posto del genere. Vedevo le guardie che la notte picchiavano i detenuti: come siamo diventati crudeli, anche noialtri. Io avevo pietà dei miei carcerati, anche se erano terroristi. Gli arabi sono stati creati pure loro a somiglianza di Dio. Sono un popolo, hanno un’anima. Proprio come noi. E la legge ebraica dice che non devi uccidere. Non dice: non devi uccidere Mosè o Maometto. Dice che non devi uccidere. E basta» . Per la regista Netalie, il macellaio di Holon è «l’esempio di che cos’è oggi il buon ebraismo: Israele ha bisogno di questo tipo di persone» . Quando va in sinagoga, in questi giorni di Purim, Shalom ascolta il Libro di Ester. C’è la storia di Mordechai, il carnefice che alla fine diventa vittima: «Se un giorno mi chiamano e mi dicono che hanno appena condannato a morte Demjanjuk, quell’altro nazista che stanno processando, la risposta ce l’ho già: ne ho avuto abbastanza di Eichmann, grazie. Scordatevi di Demjanjuk. E dime. Questa cosa, io non la faccio più» . (Ha collaborato Ariela Piattelli)
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