Gli effetti benefici di pirati e fuorilegge

Un saggio di Eduardo Peà±alver e Sonya Katyal

Un saggio di Eduardo Peà±alver e Sonya Katyal

Il dubbio che l’epistemologia dell’operaismo italiano abbia potuto contagiare le law schools d’oltreoceano non ci sfiora neppure. Eppure una delle fondamentali premesse del volume di Peñalver e Katyal dedicato ai «fuori-legge» del diritto di proprietà sembra essere stata estratta di peso da quelle pagine di Operai e capitale in cui si postulava la priorità delle lotte rispetto alla innovazione e alla ristrutturazione capitalista. Sia chiaro: quella di Property Outlaws è una cornice teorica squisitamente liberale, entro la quale è di casa più il nome di Dworkin che non quello di Marx. E tuttavia, si tratta di un libro coraggioso e innovativo, capace di illuminare originalmente il territorio del diritto di proprietà, in modo tanto più interessante e tempestivo per una scienza giuridica sempre più in cerca di attrezzi teorici per pensare il comune. Il volume si confronta infatti con il ruolo giocato dai lawbreakers nello sviluppo del diritto di proprietà e sul loro contributo alla sua nuova e diversa stabilizzazione. 
La tesi è presto detta: il ruolo di chi viola il diritto di proprietà è stato ed è strutturalmente decisivo per l’evoluzione giuridica della proprietà stessa. È dunque la dialettica tra rottura (violazione della norma) e riforma (estensione della disciplina giuridica) a definire il campo instabile del diritto di proprietà. Peñalver e Katyal insistono su quello che definiscono un carattere «dialogico» del diritto di proprietà, che, a ben vedere, altro non è che un tratto di immanente conflittualità che inerisce – storicamente e strutturalmente – al «terribile diritto». 
L’evoluzione giuridica va perciò immaginata come un’inesausta dialettica tra rottura e ricomposizione, tra contestazione e uso. Del resto questo statuto paradossale – il dentro/fuori – è un carattere inestinguibile del diritto come arma di contestazione. E ciò è tanto più vero per quella sorta di pulsazione, interna al regime proprietario, che ne governa mutamenti di statuto e innovazione di contenuti. Una dialettica irriducibile alle spiegazioni classiche che la vogliono frutto ora di dinamiche tutte interne alla scienza giuridica e alla giurisprudenza ora di pressioni sociali sul legislatore, ma che riconosce piuttosto nella violazione ripetuta della legge il motore stesso del mutamento giuridico e della sovversione – sostanziale e simbolica – degli assetti del diritto di proprietà. 
Certo, si tratta qui di pensare al diritto di proprietà fuori dallo schema individualista-proprietario classico, per afferrare una fondamentale riflessività che intrecci statuto della proprietà e valori della comunità, secondo un modello sociale e negoziale della proprietà stessa, in cui centrali sono i soggetti, protagonisti del conflitto. Ovviamente, anche la «composizione di classe» dei lawbreakers del diritto di proprietà è presto detta: si tratta dei non proprietari, degli spossessati, di coloro che la sociologia del diritto statunitense ha reso celebri attraverso l’epiteto, limpido e brutale, di have-nots. Non è un caso, perciò, fanno non ironicamente notare gli autori, che le pronunce più interessanti in materia di proprietà nel mondo di common law provengano spesso dal diritto penale. 
Peñalver e Katyal dedicano gran parte del loro sforzo a elaborare una sofisticata tassonomia dei profili dei lawbreakers e infine a registrare la vasta gamma di reazioni che l’autorità pubblica può opporre alla loro sfida. Da un lato, esistono infatti delle violazioni acquisitive, in cui il diritto di proprietà non viene rispettato al fine di un immediato beneficio personale, come nel caso della disputa ottocentesca e western tra squatters e governo federale; dall’altro, ci sono violazioni di natura espressiva, o dimostrativa, in cui, più che il puntuale ottenimento di un beneficio, conta l’asserzione di un principio dagli effetti simbolici profondi, come nel caso della battaglia anti-segregazionista condotta da quegli studenti afroamericani che, negli anni ’60, andavano a sedersi al bancone degli esercizi in cui non era tollerata la loro presenza. 
Esistono poi fenomeni ibridi in cui – come nel caso dell’occupazione di immobili – i due «moventi» si intrecciano. In ogni caso, se la risposta dell’ordinamento può essere, sotto la spinta di queste lotte, volta a volta orientata al cambiamento (e, il più delle volte, come il volume dimostra, lo è) o alla conservazione, resta inequivocabile e tangibile l’effetto di trasformazione sui suoi assetti correnti. Del resto, si tratta di una storia conservata tanto nei testi di legge come nella memoria storica collettiva. Chi viola il diritto di proprietà, insomma, offre un beneficio e un servizio alla società tanto in termini di redistribuzione che di informazione. Motivo per cui il volume si chiude con un’intera serie di raccomandazioni allo Stato perché non soltanto la deterrenza nei casi di violazione del diritto di proprietà sia limitata al minimo indispensabile, ma perché, soprattutto, possano essere messi in campo speciali dispositivi che permettano la riproduzione di una «costruttiva» violazione della legge. 
Facendosi portatori di una visione e di un pratica del diritto alternativa, i contestatori della legge aiutano a superare quel «deficit immaginativo» che impedisce alle maggioranze di abbracciare, e forse anche di «vedere», forme giuridiche nuove e inesplorate. La violazione del diritto di proprietà è perciò un esercizio pratico e concettuale che dimostra l’esistenza di un’intera gamma di possibilità giuridiche che eccedono i modelli dati per acquisiti o pensati come immutabili. Questo libro è una prima, utilissima indicazione in direzione di quel ripensamento radicale del diritto di proprietà che costituisce l’inaggirabile premessa a una riflessione sul comune, che non resti, giuridicamente parlando, lettera morta. 
LIBRI: EDUARDO M. PEÑALVER, SONIA K. KATYAL, PROPERTY OUTLAWS: HOW SQUATTERS, PIRATES, AND PROTESTERS IMPROVE THE LAW OF OWNERSHIP, YALE UNIVERSITY PRESS, PP. 294, DOLLARI 45

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