Bandiere giovanili, dal ’68 francese alla primavera maghrebina

Nel primo Novecento i rivoluzionari europei cantavano «e noi faremo come la Russia» , nel à 68 impugnavano il libretto di Mao, ora tocca al Nord Africa. Il 23 marzo scorso il Knowledge Liberation Front — una rete internazionale di movimenti radicali di studenti, precari e lavoratori della conoscenza — ha indetto una conferenza stampa per annunciare tre giorni di mobilitazione contro la «finanziarizzazione delle nostre vite» .

Nel primo Novecento i rivoluzionari europei cantavano «e noi faremo come la Russia» , nel à 68 impugnavano il libretto di Mao, ora tocca al Nord Africa. Il 23 marzo scorso il Knowledge Liberation Front — una rete internazionale di movimenti radicali di studenti, precari e lavoratori della conoscenza — ha indetto una conferenza stampa per annunciare tre giorni di mobilitazione contro la «finanziarizzazione delle nostre vite» . Dal comunicato si evince che il primo oggetto di contestazione sono l’aumento delle tasse di iscrizione e i concomitanti tagli di budget che Inghilterra, Francia, Italia e altri Paesi hanno imposto alle università, una scelta, si scrive, funzionale a un progetto di mercificazione della conoscenza e precarizzazione del lavoro culturale. A colpire di più, tuttavia, è il riferimento alle lotte dei giovani insorti nordafricani, descritte come modello da imitare. Un anacronistico rigurgito terzomondista? Basta rileggere gli articoli che gli inviati di tutto il mondo hanno dedicato agli eventi di Tunisia ed Egitto per capire che non si tratta di questo: se i giovani parigini, londinesi e romani possono identificarsi con i ragazzi del Cairo e di Tunisi è perché sanno che si tratta perlopiù di studenti laureati e neolaureati condannati alla disoccupazione, di persone che usano i social network come i coetanei europei, dei quali condividono ormai i valori culturali, e che l’impossibilità di trovare sbocchi occupazionali induce ad attraversare il Mediterraneo e approdare sulla sponda europea in cerca di migliori condizioni di vita. È quindi del tutto comprensibile che i giovani rivoluzionari europei li considerino «rinforzi» da arruolare nelle proprie battaglie. Comprensibile ma per nulla scontato, nel senso che questa svolta ideologica è un sintomo impressionante della velocità con cui ha camminato la storia negli ultimi decenni: il ’ 68 rivendicava un’università di massa che, si sognava, avrebbe democratizzato la politica e l’economia; ora che l’università di massa minaccia di divenire una fabbrica di precari, ci si specchia nel destino dei giovani diseredati del Maghreb. Che abbia ragione la sociologa della globalizzazione Saskia Sassen quando parla di «terzomondizzazione» dell’Occidente? ??Corriere della Sera 29.3.11?Siamo una democrazia mediamente ignorante?Un’indagine del Centro per il Libro fa il punto sul mercato editoriale?di Paolo Di Stefano??E’ molto interessante l’indagine Nielsen sull’acquisto e la lettura di libri commissionata dal Centro per il Libro presieduto da Gian Arturo Ferrari. Il risultato più rilevante è che solo il 33 per cento della popolazione italiana (un cittadino su tre) ha acquistato almeno un libro nell’ultimo trimestre 2010. Si tratta per lo più di donne (54 per cento), di un pubblico che risiede per la maggior parte tra il centro e il Nord Italia e che ha un profilo giovane (tra i 25 e i 34 anni). La libreria resta il canale preferito (65 per cento), mentre un acquirente su dieci si rivolge a internet. In media il cittadino che compra libri ha speso circa 27 euro in tre mesi, cioè 9 euro al mese, per di più nel periodo più propizio per l’editoria, come quello natalizio, in cui il libro è anche regalo. Gli altri non hanno speso niente. Dunque, il cittadino italiano ha sborsato in media, per i libri, 3 euro al mese. Se si va sulla lettura, le cose stanno ancora peggio: le persone che hanno letto almeno un libro in tre mesi sono meno degli acquirenti: in tutto, 16.8 milioni. Altro che crescita o decrescita del Pil, c’è un prodotto interno lordo che procede più lentamente di quello economico ed è quello culturale. Non si potrebbe immaginare niente di più catastrofico per lo sviluppo di un Paese. L’industria editoriale, consegnata nelle mani dei supermanager, non ha dato grandi risultati. O, meglio, se le case editrici stanno economicamente meglio che in passato, il Paese è rimasto culturalmente quello di sempre se non peggio. E se si considera la situazione al sud, la situazione è ancor meno confortante: in Calabria, solo il 6 per cento della popolazione ha acquistato più di tre libri nel periodo preso in considerazione. Non si fa che parlare di ebook, ma rimane un mercato che non sfiora neanche l’uno per cento del totale. Dunque, in attesa dell’onda digitale eternamente annunciata, parliamo di editoria cartacea. Un altro dato significativo dell’indagine Nielsen è che i libri nettamente più venduti (20 per cento del totale) sono gialli, polizieschi e thriller: cioè tutta quella massa di titoli che un tempo veniva ignorata dai sondaggi in libreria per il semplice fatto che, venendo considerata paraletteratura, finiva in edicola. Ora è la Letteratura per eccellenza. Lo stesso vale per quel 7 per cento che rientra nella categoria della narrativa rosa o d’amore. Ha ragione Ferrari (intervistato da Simonetta Fiori per la Repubblica) quando dice che «la base dei lettori italiani è vergognosamente ristretta e nessuno dà un valore sociale al libro» . Sarà vero che per migliorare le cose basterebbe che lo Stato investisse 10 milioni l’anno per un quindicennio? Se così fosse, scordiamoci ogni sogno di gloria. Visto che gli investimenti sulla cultura diminuiscono a vista d’occhio. Dice Ferrari che l’unico momento storico in cui lo Stato unitario si è prodigato per allargare la lettura è stato il ventennio fascista: non è un esempio valido, perché bisogna valutare che tipo di libri promuoveva. Fatto sta che, nel dubbio, la nostra democrazia, a giudicare da tutto, si accontenta di avere cittadini mediamente ignoranti.

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