Luigi Di Ruscio, tra versi e prose nel segno di un’assoluta singolarità 

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«Parto difficilissimo, spesso si nasce venendo stritolati, lo shock dell’aria freddissima rispetto al calore del ventre materno». Si apriva con questa nascita cruenta lo stupefacente romanzo-zibaldone autobiografico che Luigi Di Ruscio, grazie ad Andrea Cortellessa, ci aveva consegnato nel 2009 (Cristi polverizzati, Le Lettere).

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«Parto difficilissimo, spesso si nasce venendo stritolati, lo shock dell’aria freddissima rispetto al calore del ventre materno». Si apriva con questa nascita cruenta lo stupefacente romanzo-zibaldone autobiografico che Luigi Di Ruscio, grazie ad Andrea Cortellessa, ci aveva consegnato nel 2009 (Cristi polverizzati, Le Lettere). Così si apriva, e così, invece, terminava: «Varco le soglie del mondo ed è come se fossi in un campo minato … mentre il sottoscritto tra gli orrori del mondo, inconsapevole com’è, del tutto disseminato dalla morte sorride, canticchia, coglie fiorellini, sosta a un passo dall’orrore… guarda pietrificato la scena e magari si mette anche a orinare sopra la morte». A un’immagine irriverente come questa, c’è da scommetterci, avranno pensato tanti lettori e amici quando ieri pomeriggio si diffondeva la notizia che Luigi Di Ruscio, 81 anni appena compiuti, non era più fra noi.
Nato a Fermo nel 1930, emigrato nel 1957 in Norvegia e mai più tornato in Italia, Di Ruscio è stato e resterà uno dei più necessari, originali e scatenati scrittori e poeti del secondo Novecento. Cresciuto negli anni Quaranta e Cinquanta e totalmente autodidatta, Di Ruscio esordì come poeta nel 1953 con un libro dal titolo fulminante (Non possiamo abituarci a morire), subito intercettato e prefato da Franco Fortini. Quattro anni più tardi, dopo un turbinio di vicende drammatiche ed esilaranti raccontate proprio nei Cristi, Luigi espatrierà in Norvegia, dove per quarant’anni lavorerà come operaio in una fabbrica metallurgica, senza smettere un solo giorno, fino agli estremi, di scrivere.
La sua poesia, ammirata da molti ma mai approdata alla consacrazione definitiva di una grande casa editrice o di un’antologia «canonizzante», rappresentò subito quella che Massimo Raffaeli ha definito «una assoluta singolarità» nel panorama della letteratura nostrana. Sin dalle prime raccolte (tra le quali vanno ricordate Le streghe s’arrotano le dentiere del 1966, con introduzione di Quasimodo; o Istruzioni per l’uso della repressione del 1980, pubblicata da Majorino nella collana «Poesia e realtà» di Savelli), Di Ruscio si rivelò poeta capace di esprimere e raccontare tutta l’esperienza umana, compresa quella alienante della fabbrica, usando una lingua fluviale, sporca, e producendo testi insieme lievissimi e profondissimi. Nel 1986, con Palmiro (postfazione di Antonio Porta), Luigi esordì come romanziere-prosatore, con un libro che resta tra i più belli e godibili degli ultimi decenni, e che racconta la miseria dei tempi di guerra, le sterminate corse tra le colline dell’infanzia, la figura dell’adorata nonna Cristina; e poi il dopoguerra e i conflitti politici, i personaggi picareschi di provincia, un erotismo esplosivo e sereno: tutti ingredienti che fanno di questo libro un incontro da augurare a qualsiasi lettore.
Dalla sua Norvegia, in incognito e da lontano, Di Ruscio in questi decenni non ha mai smesso di osservare la nostra realtà, infarcendo i suoi ultimi libri di prosa (Le mitologie di Mary, 2004, dedicato alla moglie; L’allucinazione, 2007, o La neve nera di Oslo, pubblicato da Angelo Ferracuti per Ediesse nel 2010) di formidabili lapsus e invettive contro «il Perculoni nostro» e le sue allucinazioni diventate ormai «la forma più realistica della nostra realtà». Né ha mai smesso, con i suoi scatenati «diti», di scrivere o «iscrivere» versi, da poeta qual era e quale orgogliosamente si sentiva, dichiarandosi «il poeta sottoscritto che scruta il mondo da una delle capitali più nordiche del mondo intero» (L’allucinazione).
Ieri, insieme alla notizia che l’anno prossimo Feltrinelli pubblicherà un suo libro di prose, su Nazione Indiana Cortellessa ha diffuso le sue ultime poesie. Nell’ultimissima, Luigi inventa uno strabiliante volo di farfalle. È un’immagine stupenda che in qualche modo gli somiglia molto, e alla quale vorrei affidare il mio, il nostro saluto: «ho la bocca piena di farfalle / e se apro la bocca / voleranno via tutte / e non ritorneranno neppure / se rimango a bocca spalancata / per una eternità».

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